Titolo: Soli nel mezzo del mondo,
Autori: Annina e Giusipoo
Pairing: Diego Perrone/Michele Salvemini
Genere: Storico/Romantico/Introspettivo
Rating: PG, slash,
Warning: NC17
Disclaimer: come sempre è tutto
frutto di fantasia. I personaggi sono originali, abbiamo preso in prestito i
nomi per ispirazione artistica. Il titolo prende spunto da: Quello che conta,
di Luigi Tenco.
Capitolo II
Mentre gli uomini trascinavano le valige
stracariche, l’adolescente la sua chitarra e i libri nel tascapane, Rosa
saltellava allegra come un canguro. Ora che si sentiva finalmente
libera da tutta quella nebbia che sembrava imprigionarla come se fosse stata di
calce e mattoni, come una farfallina librava. “È tutto così bello, e questo
sole...” Augusto, suo fratello, la cinse in un abbraccio accompagnandola dentro
la grande villa. Tutti gli occupanti, due donne e un’anziana, l’accerchiarono
per abbracciarla con calore. Assunta, la cognata, sua sorella Germana e la
madre di loro, Elsa, entrambe vedove. “Grazie, grazie...” biascicò tra le
lacrime Rosa. Diego, poco avvezzo agli slanci d’affetto, rimase in disparte
guardandosi intorno. Il locale era grande, così diverso dagli appartamenti di
città dove lui e Rosa avevano vissuto. C’era persino il caminetto, cosa che con
quel caldo, non avrebbe mai immaginato. Al ragazzino tutto sembrava monumentale
e lui, uno gnomo tra i giganti: dalle finestre immense da dove si irradiava la
luce delle ultime ore del giorno, ai mobili che se pur minimali, addobbavano le
pareti, così come alcuni trofei di caccia, tra cui la testa di una gazzella. Quando
gli arrivarono sopra la zia e le altre due donne, Diego non poté fare a meno
che ricambiare se non i baci umidicci, l’abbraccio ma, appena poté si rifugiò
nei pressi di sua madre.
“Come ti ho scritto Rosa, abbiamo un’intera
dependance per voi. Ho sempre sperato che ti saresti decisa ad occuparla” si
accese una sigaretta: “Come si fa a preferire Torino quando qui c’è tutto
quello che un uomo ha bisogno? Lavoro, natura, gente dall’animo leggero” Augusto
li spronò a seguirlo, si accodarono a lui anche sua moglie e sua sorella,
mentre Tim e Samuele preferirono andare a rincorrersi nel giardino, dietro il
cane di casa. Diego cominciava sentirsi, se non proprio entusiasta, un pizzico
curioso. L’ambiente non lo aveva deluso, tutt’altro, a perdita d’occhio tutti
quei campi, quella natura selvaggia. Già si vedeva a bighellonare in giro per
ore, come faceva Rimbaud, e come un novello Rimbaud a scrivere le sue poesie, a
disegnare.
La dependance costava in un unico piano e
tre stanze e a poche centinaia di metri la stalla con gli struzzi. Presto si
sarebbero abituati all’odore e al rumore, li assicurò Augusto. Mentre Diego
riponeva gli abiti nel piccolo armadio destinato a lui, sua madre lo raggiunse
per abbracciarlo da dietro. “Ha detto la zia che tra poco si cena. Fatti bello”
iniziò a tirare fuori la roba al posto suo: “Mettiti questa bella camicia che
ti ha regalato...” stava per nominare il suo defunto amante poi s’interruppe:
“Ti fa sembrare più grande, la cravattina e i pantaloni di velluto a coste”
“Il velluto a coste ma’? Saranno trentadue
gradi!”
“Hai ragione, un paio di cotone allora, ma
scuri. Voglio che pensino che sei il ragazzo più bello del mondo, perché lo
sei...” gli scompigliò i capelli cortissimi ai lati ma che si alzavano
disordinati sulla testa. Diego oppose resistenza e poco dopo restò solo.
Stancamente si affrettò a radunare la sua roba e, una volta tirato fuori
l’accappatoio, raggiunse la stanza da bagno.
Diego aveva sperato di sentirsi
meglio dopo il bagno, ma non fu così.
Tornò nella sua camera, e si sedette
sul letto, guardandosi intorno. Nonostante avesse dormito in aereo, le lunghe
ore di viaggio e la differenza di fuso orario cominciavano a farsi sentire.
Infilò i calzoni e la camicia
come voleva la madre, ma lasciò perdere la cravattina, a tutto c’è un limite, e stava andando a un pranzo di famiglia in
fondo, anche se per lui erano ancora estranei.
Si appoggiò al davanzale della
finestra e guardò i grandi uccelli che si aggiravano con espressione attonita
nel recinto, qualche metro più in là. Erano davvero strani. Si domandò che cosa
ci fosse ancora di strano in quel paese agli antipodi rispetto all’Italia,
all’Europa, al mondo come lui lo aveva conosciuto.
In quel momento la sua attenzione
fu attratta da uno strano personaggio che si stava avvicinando agli animali,
spingendo una carriola.
Rimase a spiarlo, non visto. Il
tipo era chiuso in una salopette da lavoro, sporco e sudato, una gran testa di
capelli ricci. Forse, sentendosi osservato, l’uomo si girò verso la dependance,
e mettendosi una mano sopra gli occhi per ripararli dal sole guardò dritto in
faccia Diego.
Vistosi scoperto, Diego si ritirò
ma non poté fare a meno di sorridere: “Che ci fa un Jimi Hendrix bianco nel
recinto degli struzzi?”.
Con Voodoo child nella testa, si avviò verso la casa degli zii.
Entrando nell’ampio patio
interno, Diego si guardò intorno: otto pareti, e su ogni parete si apriva una
porta. Rimase interdetto: non ricordava in quale stanza era entrato poche ore
prima, né immaginava quale fosse la porta della sala da pranzo.
Rimase in silenzio, e gli parve
di sentire delle voci che provenivano dalla porta alla sua destra: si avviò in
quella direzione, ma si fermò: la sua timidezza gli impediva di entrare in una
stanza già occupata da altre persone.
Proprio in quel momento la porta
si aprì, e apparve Elsa, la madre della zia, che vedendolo lì sull’uscio lo
prese subito per un braccio trascinandolo all’interno: “ecco il piccolo Diego,
vieni caro, vieni aspettavamo solo te per mangiare”.
Entrando nella vasta sala da
pranzo, Diego vide tutti i parenti già accomodati lungo una tavola riccamente
imbandita.
“Vieni Diego, siediti qui vicino
a me” disse lo zio Augusto “bene possiamo incominciare. Oggi per noi è una
festa, perché la famiglia finalmente si è riunita. Forza, cominciamo” e le portate
iniziarono a girare.
Tutti mangiavano e
chiacchieravano allegramente, tranne Diego. Se già a Torino si sentiva sempre
un po’ diverso rispetto ai suoi compagni, qui si sentiva come un pesce d’acqua
dolce buttato in pieno Oceano. Non vedeva l’ora che lo lasciassero un po’ da
solo, per poter fare un giro nei dintorni, e cercare di riprendersi un po’.
Dal suo posto Diego poteva vedere
fuori dalla grande portafinestra che occupava quasi tutta la parete di fronte a
lui.
Mentre stava per iniziare la sua
porzione di arrosto, vide passare l’uomo che aveva già avuto modo di sbirciare
dalla sua stanza.
La curiosità vinse la timidezza e
chiese allo zio: “Chi è quel tizio?”. Seguendo il suo sguardo, lo zio Augusto
ridacchiando rispose: “E’ uno strano tipo vero? E’ Michele; ha un piccolo
appezzamento qui vicino. E’ stato il primo ad allevare struzzi qui da noi, ed
ha un talento particolare. Sono bestie strane e cattive, ma lui riesce a
gestirle, sembra quasi che parli con loro e che lo capiscano. Quindi si occupa
anche degli allevamenti di tutti, compresi i nostri”.
La zia Assunta, felice di aver
trovato un argomento diverso dal grigiore di Torino e l’austerity, guardò Rosa
e aggiunse: “Povero Michele, ha una storia così triste alle spalle: la moglie
impazzita a causa di un virus pare, non è più uscita dall’ospedale e ha due
figli piccoli di cui occuparsi. E’ una brava persona, anche se è un po’ rozzo.
Comunque, qui siamo abituati a darci una mano gli uni con gli altri. Lui oltre
che degli struzzi, si occupa di accompagnare i ragazzi a scuola col suo
furgone”.
“Già”
intervenne Samuele “e mentre guida canta come un pazzo! Ormai le
abbiamo imparate anche noi, e a volte cantiamo con lui. Non sono male,
soprattutto Tommy, non ricordo chi la
canta, e A day in the life dei
Beatles”.
“Tommy è
degli Who, le conosco già tutt’e due” rispose Diego.
“Si,
comunque secondo me sono tutte canzoni strane. Io preferisco i Beach Boys” fece
Tim. Diego lo guardò pensando che non poteva che essere così: il cugino non gli
sembrava un tipo troppo impegnato.
Finito il pranzo, lo zio disse:
“Bene allora, io stasera non ci sarò, ho una riunione con la Comunità italiana;
Diego, ho chiamato a scuola, praticamente sei già iscritto, quindi domattina
alzati presto che alle 6 passa il furgone che vi accompagnerà al College. Oggi
non avventurarti troppo in giro, perché ancora non conosci i pericoli del
nostro territorio. Aspetta a buttarti in mischia! E a proposito di mischia,
Samuele ha sentito il suo allenatore, e dalla prossima settimana comincerai
anche a fare un po’ di rugby, così ti facciamo venire il fisico!!! Qui tutti i
ragazzi giocano a rugby, te ne accorgerai”. Diede una pacca sulla schiena che
il ragazzino tentennò un po’ ed ebbe paura di cadere. Come avrebbe fatto a
sopportare la calca di quei ragazzi così robusti? Terrorizzato si limitò ad
annuire ed uscì.
Vedendo che nessuno si occupava
più di lui, Diego uscì alla chetichella, e si accinse a fare un giro nei
dintorni, a dispetto del consiglio dello zio.
Senza nemmeno pensare, si incamminò
verso il recinto degli struzzi.
Non vide nessuno vicino, e fu
preso dall’impulso di entrare e guardare da vicino quegli strani animali.
Mentre stava per scavalcare il
recinto si sentì prendere per le spalle e tirare all’indietro.
Spaventato, si girò di scatto, e
si trovò davanti a Michele.
“Non ti avvicinare mai più”
ringhiò l’uomo.
Diego, scosso, rimase lì senza
sapere che dire, impressionato dalla massa di capelli che era ancor più grande
vista da vicino e dal pizzetto che contornava la bocca grande e le labbra
carnose, sebbene nascoste dalla peluria. Due occhi neri come la pece lo
guardavano malamente.
Preso improvvisamente dalla
rabbia si scrollò di dosso la mano di Michele che ancora gli stringeva la
spalla, e gli gridò: “Beh, non sono affari tuoi quello che faccio io, questa è
casa di mio zio, è casa mia!”.
Michele lo guardò quasi con
disprezzo, e mormorando qualcosa che Diego non capì gli girò le spalle e fece
per allontanarsi.
“Stronzo…” mormorò Diego al suo
indirizzo. Michele lo sentì, tornò verso di lui, parve volerlo aggredire:
invece rimase a guardarlo intensamente per un attimo che a Diego parve un
secolo, poi si volse e se ne andò.
Diego respirò profondamente, poi
abbandonò l’idea del giro e tornò verso la dependance.
Una volta al sicuro nella sua
camera, imbracciò la chitarra e iniziò a strimpellare, ma presto abbandonò
anche quell’idea. Si sentiva ancora più confuso di prima, e irrequieto.
Chiuse le imposte della finestra
e decise di mettersi a letto e provare a dormire. Si spogliò e si infilò sotto
il lenzuolo.
Niente, il sonno non veniva; in
compenso l’inquietudine e la solitudine lo tormentavano ancora di più.
Cercò di non pensare a niente, di
chiudere la mente sotto lucchetto, di canticchiare una canzone tra se Fu tutto
inutile.
Piano la sua mano scese verso
l’inguine: lentamente, a occhi chiusi, Diego cominciò a toccarsi, ad
accarezzarsi cercando un po’ di sollievo nell’amore solitario, il solo che conoscesse. Il cuore palpitava forte
nel petto e il respiro si fece affannoso. Mille immagini affollavano la sua
mente, ma fu il viso di Michele a comparirgli davanti pochi istanti prima di
venire.
Sfinito riaprì gli occhi e rimase
un po’ a guardare il soffitto, poi si girò verso il muro e iniziò a
singhiozzare piano, mentre le lacrime bagnavano il cuscino. Pianse a lungo,
prima di addormentarsi.
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RispondiEliminaBellissimo primo incontro con Michele! E non vedo l'ora di scoprire come si svilupperà il loro rapporto! <3 Bravissime, ragazze! <3
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