giovedì 20 settembre 2012

Il cassetto dei sorrisi



Titolo: Il cassetto dei sorrisi  
Pairing: Diego Perrone/Michele Salvemini
Genere: Romantico/Introspettivo  
Rating: PG, slash,
Disclaimer: I personaggi mi appartengono, ho solo preso in prestito dei nomi e questa opera non ha scopo di lucro. Il titolo prende spunto da Rainy Baby, di Diego Perrone




*****




Vivevo in una bolla e non me ne rendevo conto. Tutto iniziò nel duemilatre, anzi, mi correggo, finì in quell’anno, prima ero nella bolla, poi arrivò l’ago a romperla, a liberarmi dalla prigione e, allo stesso tempo, incasinarmi la vita. Pur essendo nato e cresciuto nella calda e florida terra di Puglia, da circa quattro anni, mi ero abituato al grigiore di Milano, dove lavoravo come Graphic designer presso una prestigiosa casa di moda che sfornava calzature per bambini. Un posto d’oro che mi ero guadagnato dopo decine di colloqui. Era un ambiente moderno e modaiolo, dove il mio look radical chic, con i capelli lunghi e ricci sparati in testa e le camice a quadrettini grunge, gli occhiali da vista squadrati dalla spessa monta nera, non erano solo ben visti ma addirittura considerati “cool”. Essendo così fascinoso, non mi fu difficile impalare la figlia del capo, Elettra Odero, una bambolina bassa ma con le curve al punto giusto. E questo mi rese di gran lunga più facile la carriera. Ecco perché, dopo due anni fui promosso come vicedirettore esecutivo. Il direttore esecutivo, il padre della mia lei, non si presentava quasi mai.
Ero convinto innamorato di Elettra e con lei dividevo un delizioso appartamentino vista San Siro. A quasi ventotto anni ero certo di essere felice senza nemmeno aver mai sfiorato il concetto di felicità. Lo stesso che chiedere ad una donna d’altri tempi se sa cosa sia l’orgasmo senza averlo mai provato; può spiegartelo benissimo senza sapere cosa sia. Ma, come detto pocanzi, vivevo in una bolla e non mi rendevo conto di nulla. Le mie giornate erano scandite da una quotidianità quasi allarmante, ma che non allarmava me, contento nella mia normalità che strizzava l’occhio a Forrest Gump per la sua ingenuità, ma che invece mi poneva al centro di un ricatto. Ero in un altro film, The Thurman Show. Mi svegliavo la mattina alle sette meno venti. Per restare in forma, come voleva Elettra, mi facevo trenta minuti nel modernissimo tapiroulant che ci aveva regalato suo padre. Doccia, poi colazione. Insieme ci recavamo al lavoro. Venti minuti di macchina per coprire tre chilometri. Solo in seguito realizzai che se invece di camminare sul tappeto rotolante, avessi tenuto la Mercedes classe A nera super accessoriata, nel garage, l’ambiente, oltre che il mio stress, ne avrebbe giovato. Ma non era certo nelle corde di Elettra quel genere di fitness, abituata a camminare su tacchi vertiginosi. Lei non cammina, sfila. Per lungo tempo non mi aveva dato alcun fastidio ma poi... Torniamo alla mia giornata tipo, mi aspettavano: le solite facce, le solite scartoffie, le solite battute... per canalizzare la mia creatività mi gettavo a capofitto nel lavoro. Il mio ufficio, un cubicolo di dodici metri quadri ma al undicesimo piano di un palazzo pieno di uffici, mi inorgogliva, soffocandomi. Le piante d’interni lo adornavano, così come tutti i vari oggetti hi-tech. In una scansia alle mie spalle c’erano i peluche che Elettra era solita regalarmi. Li detestavo, ma non lo sapevo. Siccome a parte certi periodi dell’anno topici, settimana della moda, convention, fiere, il lavoro scarseggiava, dovevo inventarmi qualcosa, così finivo per passare ore su internet, dove saltellavo di blog in blog, di forum in forum, di sito in sito. Spesso cazzeggiavo, oppure studiavo. Ogni tanto acquistavo volumi sul medioevo, così da passare meno ore al pc e più con il naso tra le pagine fitte; in questa maniera attenuavo il senso di colpa. A pranzo mi recavo con Elettra nella mensa aziendale e alle cinque potevamo uscire per recarci al Muline rouge, un bar di tendenza per l’aperitivo. Di nuovo le solite facce, le solite battute, le solite puttane... Senza rendermene conto, mi sparavo quattro prosecchi, e se non ci mangiavo sopra anche poco, ne uscivo così ubriaco che spesso gli amici erano costretti a portarmi in auto a braccetto. Elettra guidava. Non cenavamo mai a casa: sushi bar, cena dai suoceri oppure da amici. Facevamo l’amore due volte alla settimana, il mercoledì e il venerdì sera, a meno che non fossi davvero troppo sbronzo o se lei aveva il ciclo. E di notte, qualche volta, mi svegliavo di soprassalto, uscivo dal mio letto alla japanese per fumarmi una sigaretta o per prendermi l’aspirina. Qualche volta piangevo. Era il mio segreto. Credetemi, ero davvero convinto che piangessi di gioia all’epoca. Io, figlio di una maestra elementare e di un operaio, avevo avverato il sogno di ogni ragazzo del sud, ero benestante nella Milano da bere, e non mi ero affatto reso conto che la Milano da bere stava bevendo me.
Poi tutto cambiò.
Quelle cose che se poi non assumono un significato diverso dopo, le dimentichi. Avete presente? Invece tutto rimase indelebile per me. Mi annoiavo così tanto quel giovedì mattina di un Aprile piovigginoso e stanco, che quando il telefono squillò, era la solita operatrice di call center, fui quasi grato di parlarle. Flirtai un po’ con lei, era pugliese come me mi disse, si chiamava Gianna. Alla fine accettai l’appuntamento per il giorno seguente, un venerdì che avrebbe segnato la mia placida esistenza. Quando infatti il giorno dopo il telefono interno squillò e la mia segretaria mi annunciò un certo “Signor Perrone” per l’appuntamento delle dieci e trenta, caddi dalle nuvole. Lo avevo rimosso. Ovviamente non avevo molto altro da fare, oltre rispondere a qualche mail e mettermi in coda per scaricare l’ultimo blockbuster. “Lo faccia entrare Simona” e mi spaparanzai sulla poltrona di pelle in attesa. Simona, una donna di mezza età priva di fascino, mi sfoderò da dietro la porta questo giovanotto con i capelli chiari dritti in testa. Il visetto, carino ma non tanto da poter essere definito “indimenticabile bello” era disseminato di piercing; la bocca atteggiata in un broncio, provò ad allargarsi ad un sorriso imbarazzato. Era timido e quando io mi alzai per offrirgli la nerboruta mano, lui arrossì. Poi prese coraggio: “Diego Perrone, piacere” gli ricordai il mio nome. Non era molto alto e non era vestito da rappresentante. Sotto un giacchetto di pelle che si tolse quasi subito, portava una maglietta dalla grafica interessante e jeans neri. Mi colpirono i suoi capelli e le sue mani. Aveva il vizio di far collimare parecchio questi due apici. Si toccava così spesso i capelli che mi chiesi se fossi io a incutergli tutto questo nervoso o non avesse davvero tanta dimestichezza riguardo l’Adsl che mi stava proponendo. Solo alla fine capii che erano entrambe le cose. “Mi scuserà, è il mio primo appuntamento” ammise alla fine intenerendomi. Aveva un suo fascino, pensai. Un po’ da cucciolo, ma anche da bello e dannato, con i tatuaggi da duro che spuntavano da sotto la maglietta a mezze maniche, nonostante la stagione ancora rigida.
“No, è stato chiarissimo. Ne parlerò a mio suocero, ma consideri che lui delega tutto a me” alla parola suocero sbiancò un poco: “Lei è sposato?” mi chiese, come se fosse un delitto o un oltraggio. “Perché? No, però è come se lo fossi. Mio suocero è il padrone della baracca. In ogni modo se acchiappi questa azienda, fai un bel salto” gli chiesi se voleva fumare e lui mi guardò con la gratitudine di una donna incinta con la vescica piena a cui offrono un bagno!
“Ucciderei per una sigaretta...”
“Però usciamo in terrazzo, la mia segretaria è abbastanza rompiscatole in materia. Soffre d’asma, cose così” ci alzammo e Diego mi seguì trotterellando. Avevo un terrazzino tutto mio, grande come la cabina di un ascensore. Impossibile non stare vicini. Le nostre braccia si sfioravano. Era più basso di me e più minuto. Ci scoprimmo a non sapere cosa dirci mentre guardavamo il panorama di tetti maestoso che si parava sotto i nostri sguardi.
“Milano ha un suo fascino vista da quassù” mi azzardai a dire.
“Io ci vivo solo da tre mesi” restai un po’ interdetto. Non lo avevo capito dal dialetto.
“Di dove sei?” passai al tu e lui sembrò rilassarsi un poco.
“Provincia di Torino. Stavo cercando lavoro quando mi è arrivata un’offerta da un’azienda di qui che prende neolaureati e, indovina un po’... " infilò le mani in tasca, lo sguardo divenne rabbioso: <Hanno deciso di ridimensionarsi. Tagli al personale, così sono stato il primo ad essere licenziato”.
“Cazzo che sfiga” mi sfuggirono due parolacce in una frase sola e Diego ridacchiò sereno. Mi piacque il suo sorriso, non mi dava l’impressione di uno che ridesse con facilità. Anzi ebbi subito l’impressione, giustissima, che Diego non fosse uno che elargisce sorrisi con facilità, tutt’altro. Erano rari e dati con parsimonia. Poi se ne andò e io mi ritrovai a pensare a lui distrattamente ma a cadenza regolare. Pensai a lui durante l’aperitivo quella sera, quando mi passò vicino una ragazzetta mezza punk con un vistoso piercing sul labbro. Ripensai a Diego quando dovetti staccare e riattaccare l’analogico del computer di casa. “Voglio mettere l’Adsl pure qui” gridai ad Elettra, intenta a spinzzenttarsi le sopracciglia. “Ma se ti colleghi pochissimo”. Ma io non le diedi retta. Stavo già pensando se fosse il caso di chiamare subito per un appuntamento Diego Perrone per la linea di casa. Il biglietto da visita ce l’avevo nel portafoglio. Ma se l’avessi chiamato di sera, mi dissi, forse lo avrei preoccupato. Ma non riuscivo a smettere di pensare a lui. Continuò così pure il giorno dopo, e la cosa mi preoccupò. E quando tornò, una settimana dopo per farmi firmare il contratto, rimasi deluso vedendolo entrare con un tipo grassoccio, sui quaranta, rasato e con una risata antipatica e inopportuna. Diego restava in silenzio a fare tappezzeria. Questa volta però indossava una camicia giallina sotto il vestito scuro. Senza cravatta. Il look da bravo ragazzo cozzava con i capelli punk e i piercing. Ma era comunque bello. Per liberarmi del suo superiore grassone e antipatico, proposi a Diego di fumare con me e chiesi a Simona di accompagnare l’altro, del quale ora ho dimenticato il nome, dunque lo chiamerò grassone; chiesi alla mia segretaria di mostrare gli altri uffici al grassone. E solo con Diego sul terrazzino, assorbii subito l’atmosfera erotica. Sembrava adeguata come una minigonna in chiesa, ma era naturale e genuina come l’erezione nei miei pantaloni, da sembrarmi entusiasmante. Un bambino di otto anni sull’ottovolante, così mi sentivo. Diego mi guardava negli occhi questa volta, ma lo intimidivo lo stesso, anche se mi aveva impalato, mi aveva venduto la sua fottuta Adsl.
“Sei contento?” lo domandai quasi provocatorio. In verità volevo proprio provocarlo. Diego sputò fuori un po’ di fumo, poi tossicchiò. “Il mio primo cliente... mi piacerebbe festeggiare”
“Festeggiamo!” mi scappò. Lui mi guardò intensamente e dopo qualche secondo, ebbi l’impressione che contasse, mi chiese: “posso invitarti a cena”
Io deglutii. Lo stato di esaltazione si trasformò in panico, perché mi stavano cadendo addosso tutta una serie di emozioni che non conoscevo e non sapevo come fronteggiarle. Mi affidai all’istinto: “Ma una trattoria, non parlarmi di pesce crudo o roba etnica”
“Cucino io” ero così disabituato al concetto di mangiare a casa che lo guardai di traverso, poi capii.
“I miei coinquilini il finesettimana tornano a casa, se ti va questo venerdì...?” era e sembrava un appuntamento con tutti i crismi. Mi ricordai che proprio quel venerdì Elettra iniziava joga. Era fatta. Ero libero.
Diego mi diede il suo indirizzo e io iniziai a vivere per quella sera.   

3 commenti:

  1. Adoro ogni singola riga di questa "fanfiction", dalle descrizioni in prima persona, al concetto della "bolla e dell'ago", al nascere di un'attrazione esaltante come andare sull'ottovolante. Sento che l'attesa di un nuovo capitolo mi ucciderà come in passato è stato per "estate"!!! <333

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  2. Grazie tesoro.... sei la più dolce delle favole

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  3. Come inizio promette davvero bene. Michele fino a quel momento credeva di essere felice, di essere innamorato, ma era solo un'illusione. In realtà viveva quella vita piatta quasi come se fosse di un altro, che non gli appartenesse senza rendersene conto. Diego mi piace tanto in questa fic, così insicuro ma anche seduttivo. Si capisce subito che è proprio la sua insicurezza a conquistarlo.

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