giovedì 15 novembre 2012

Soli nel mezzo del mondo, Capitolo 4




Titolo: Soli nel mezzo del mondo,
Autori: Annina e Giusipoo
Pairing: Diego Perrone/Michele Salvemini
Genere: Storico/Romantico/Introspettivo  
Rating: PG, slash,
Warning: NC 13
Disclaimer: come sempre è tutto frutto di fantasia. I personaggi sono originali, abbiamo preso in prestito i nomi per ispirazione artistica. Il titolo prende spunto da: Quello che conta, di Luigi Tenco


Capitolo 4


Per altri tre giorni Diego ripeté il copione del primo giorno: si alzò prima dell’alba, fece colazione con un tè, attese il camion che lo avrebbe accompagnato a scuola e quei restanti attimi di tempo, dopo la scuola, dopo i compiti e prima di cena, li passò a bighellonare per il ranch e anche oltre. Scoprirò dove finisce il cielo, l’occhio cercava di capire se quelle distese immense di campi da arare, di animali che brucavano tranquillamente quella terra così fertile, come gli ricordava lo zio ogni giorno, avessero una qualche fine. O una fine qualunque. Non sapeva cosa immaginarsi ci fosse dopo, se mai c’era. Un bosco, il mare, la giungla. Barry, la più smorfiosa delle ragazzine che lo avevano adocchiato, per farsi notare gli aveva raccontato che dalle parti di dove si trovava ora lui, c’erano delle fantastiche cascate che terminavano in piccoli corsi d’acqua e lagune, dove si poteva fare il bagno praticamente in qualsiasi stagione. Ma Diego sospettava che Berry, una capra in geografia, avesse sbagliato posto. Tuttavia però i suoi giretti fuori dal villaggio si allungarono sempre più. Poi c’era quello strazio degli allenamenti di rugby ai quali aveva partecipato e che gli sembravano anche peggio della scuola. Almeno a scuola qualcuno gli insegnava qualcosa, dagli allenamenti ne uscì pieno di lividi e dolori in tutto il corpo, in compensò però si ritrovò affamato, facendo così felice sua madre Rosa che elargì ben due porzioni di fettuccine al ragù. La cosa che però lo aveva turbato più del rugby era stata la parte -spogliatoio-. Era disabituato al cameratismo maschile e vergognoso di quel corpo piccolo e pallido che riteneva inadeguato per un maschio della sua età. “Not much coat, no much cock” aveva sentito apostrofare Tim agli altri. Ne fu sicuro quando tutti scoppiarono a ridere mentre se ne andava. Ma quello, essere schernito per la sua poca prestanza fisica, poteva sopportarlo. In realtà ciò che lo preoccupava maggiormente erano le vaghe ed indefinibili emozioni che gli procuravano i ragazzi più grandi nudi e questo gli ricordava ciò che lo legava a Michele, e all’immancabile appuntamento con le sue parti basse, chiuso nella sua cameretta, ascoltando Beatles o gli Who e immaginandosi l’uomo barbuto che faceva lo stesso. Ascoltare la stessa musica, toccarsi.
Ma forse aveva una donna da qualche parte, si disse. Malgrado l’aspetto disordinato, non era né vecchio e né brutto, questo Diego, nonostante la giovane età lo capiva e l’idea di Michele che scopava con una donna, lo arrapava e nella stessa misura lo uccideva di gelosia.
La mattina del sabato si svegliò come sempre spossato. Ma almeno non c’era scuola. Resistette a letto fino alle sette del mattino e come la luce si addentrò sulla sua stanzetta, Diego scattò in piedi, intenzionato a sfruttare le ore del giorno per girovagare.
“Dove pensi di andare?” lo richiamò sua madre: lui, con un piede fuori dalla porta, il taccuino nel tascapane e una borraccia d’acqua, si voltò di scatto. “Faccio una passeggiata”
“Non dovresti girare così tanto da solo. Ci sono i dingo e le altre bestie” si avvicinò e dopo avergli stampato un bacio sulla fronte lo pregò di farsi accompagnare dai suoi cugini. “Ma’, non insistere, sono troppo diversi da me” lei si accigliò: “E perché sarebbero diversi?” “Cazzo pensano solo allo sport e alle ragazze” si pentì subito di quello che aveva detto. Ogni ragazzo alla sua età avrebbe dovuto pensare solo a sport e ragazze! “E che c’è di male? A questo proposito ricordati che oggi c’è la partita. Tuo zio ci tiene, lo sai”
“Anche se non giocherò? Ora vado” senza voltarsi più Diego superò la porta della dependance.


Camminò per diverse miglia sotto la calura di quel sole indecente. Costeggiò campi di grano, foraggio, tabacco e fragole. Fu affascinato dalle cataste di fieno che aveva visto solo nei libri e per qualche secondo si sentì un privilegiato. Ripensò agli amici che aveva lasciato appena da una settimana, incastrati nelle loro casette a Torino, che conoscevano solo palazzi e vivevano in attesa della domenica per andare a tifare Juventus o Torino. Con un sorrisetto stampato si intrufolò in mezzo ad un campo di girasoli ed iniziò a camminare ad occhi chiusi, lasciandosi travolgere dal buon odore di campagna, da quella luce che lo guidava anche a palpebre chiuse, dai sensi, come mai tutti allertati. Restò così tanto ad occhi chiusi che non si accorse di aver superato i girasoli ed essere giunto in una parte desertica. All’improvviso un colpo di fucile lo investì; gli sembrò di averlo sognato. Ma era stato proprio ad un passo dai suoi piedi. Ne fu quasi certo.
“Pezzo di cretino, ma ti rendi conto che stavi per pestare un tapian?” Si trattava di uno dei rettili più velenosi al mondo ma questo Diego non poteva saperlo. Michele sì. Che ci faceva a due passi da lui? Lo aveva seguito forse? “Io... io... ” biascicò mentre il labbro inferiore tremava. Anche il resto del corpo tremava visibilmente e, come se non bastasse la figuraccia che aveva appena fatto, svenne.
Lo svegliò il rumore di una cascata. Fiaccamente cercò di sedersi: la bellezza del luogo lo lasciò interdetto. L’acqua verde di un torrente scorreva lenta, e dalle rocce proprio di fronte a lui sull’altra riva, una cascatella cadeva su grandi massi bianchi. Tutt’intorno la laguna era circondata da una fitta vegetazione, e dai fiori che riempivano alcuni alberi arrivava un profumo dolce e persistente. Per quanto tempo era stato privo di sensi? Tirandosi su con la testa, osservò il suo soccorritore nonché l’uomo che gli aveva salvato la vita. Stava a gambe incrociate guardando lo scorrere dell’acqua, la testa riccia era tenuta da una fascetta multicolore sul quale era stato appuntato il simbolo della pace. Cincischiava con qualcosa tra le mani, un panetto di fumo. Ma Diego non aveva mai visto la cannabis, solo sentita nominare.
“Dove siamo qui?” chiese Diego.
“Gran bel posto vero? E’ un affluente dello Yarra, il fiume che costeggiamo  per un po’ andando a Melbourne; la sua bellezza mi incanta ancora dopo tutti questi anni” Gli scappò un sorriso etereo ma tornò quasi subito serio: “Ragazzino, lo vuoi capire che qui non sei a Torino? Ci sono animali di cui tu non hai mai sentito il nome. Bestiacce che possono ucciderti in qualche secondo tra dolori atroci!”
“Quanto ho dormito?” Diego si infilò le dita tra la chioma arruffata. “Non più di cinque minuti. La paura gioca questi scherzi” Ecco, ora penserà che sono un fifone. Gli veniva da piangere. Ci teneva che Michele non pensasse questo di lui. Perché? Gli aveva fatto capire più volte che razza di scansafatiche fosse. Mentre gli altri ragazzi, compresi i suoi figli, lavoravano occupandosi degli animali e degli apprezzamenti, lui preferiva bighellonare od oziare nella sua stanza, strimpellando. Ecco, non era simpatico a Michele, questo era certo, perché farsene un cruccio? Un dramma esistenziale?
Michele finì il suo piccolo capolavoro e dalla tasca della camicia a quadrettoni tirò fuori i fiammiferi. Dopo una lunga tirata, la porse al ragazzo. “Vuoi?” “Io non fumo, che roba è?” “Una roba che fa bene se presa a piccole dosi. Prendi” e gliela spinse tra le labbra. Diego tossì stentando a riprendersi e questo fece ridere l’adulto.
Se la passarono per diversi minuti finché non fu finita. Diego piaceva il sapore dolciastro e qualche minuto dopo si dichiarò affamato. Michele, fucile in spalla e braccio sulle spalle di Diego, lo condusse fino al campo di fragole, dove rubacchiarono smangiucchiando e ridendo come ubriachi. Ben presto Diego si ritrovò la faccia sporca di rosso fragola fin’oltre il nasino. “Se ci prendono?” “Ci sparano, e risponderemo al fuoco col fuoco” ribatté Michele facendo l’occhiolino.“Ma non sei un pacifista?” Diego indicò la fascetta e Michele fece spallucce. “Mica ho detto che lo uccido, basta che lui non uccida me e...” poi lo fissò intensamente: “e soprattutto te piccolino mio...” Diego dilatò le pupille, sorpreso e frastornato da quel vezzeggiativo. Nemmeno suo padre lo aveva mai chiamato piccolino mio. Michele tornò al suo fianco e quando gli passò di nuovo il braccio sulla spalla, Diego istintivamente appoggiò la guancia sul braccio. Era molto più basso di lui e meno robusto. Si sentì infinitamente bene e pensò se quella sensazione non fosse l’effetto della droga mentre gli circondava la vita allacciandosi a lui.
Michele mi vuole bene, se mi abbraccia mi vuole bene, rifletté mentre si incamminavano verso il villaggio parlando di cose futili ma anche di cose serie, come la guerra nel Vietnam e la rivoluzione comunista in Cina. Una volta davanti alla dependance, il giovinetto notò i cugini pronti per la partita; si apprestavano ad entrare nell’auto del padre. “Ti aspettiamo, muoviti che è tardi!” lo zio lo gridò a venti metri di distanza.
“Lo porto io” rispose Michele al suo posto. I tre famigliari di Diego si guardarono attoniti. Michele mise una mano sulla spalla del ragazzo. “Dai vatti a preparare”
“Ma io odio il rugby poi sono svenuto...” e sotto sotto un pensiero: mi sono drogato, voglio stare ancora del tempo con te...
“Non è stato uno svenimento grave, solo un calo di zuccheri. E il rugby è uno sport bellissimo”
“Come? Ti piace il rubgy?” non lo avrebbe mai pensato. E deluso di non avere un complice, Diego si allontanò da lui con la coda tra le gambe. 


4 commenti:

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  2. Aw, che bellissime immagini in questo capitolo! Al di là degli scenari paradisiaci, l'immagine di Diego con la guancia poggiata al braccio di Michele è di una dolcezza incommensurabile!
    Hanno creato un legame e io devo assolutamente sapere come si svilupperà! Al prossimo capitolo! <3

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