mercoledì 14 novembre 2012

Soli nel mezzo del mondo, Capitolo 3




Titolo: Soli nel mezzo del mondo,
Autori: Annina e Giusipoo
Pairing: Diego Perrone/Michele Salvemini
Genere: Storico/Romantico/Introspettivo  
Rating: PG, slash,
Disclaimer: come sempre è tutto frutto di fantasia. I personaggi sono originali, abbiamo preso in prestito i nomi per ispirazione artistica. Il titolo prende spunto da: Quello che conta, di Luigi Tenco
Warning! NC 17



Capitolo 3


Dopo un sonno che gli sembrò catartico, Diego si svegliò per la prima volta in Australia. Ne fu sicuro non solo perché fu destato dal gallo e da altri uccelli che cantavano con passione, ma anche perché lo sparo di un fucile in pieno centro di Torino, non lo avrebbe mai potuto udire. La pancia era ancora imbrattata di sperma e il cuscino umido di lacrime. Si ricordò di Michele e si maledisse. Perché aveva pensato a lui mentre... Non gli era mai successo di pensare nitidamente a qualcuno mentre si toccava. Aveva sentito i discorsi dei suoi amici, i compagni di scuola dei Salesiani, loro avevano i giornaletti proibiti, ma alcuni si accontentavano di rievocare zie scosciate, visioni di seni rubacchiate in qualche film notturno sulle televisioni private. Addirittura un suo amico che dimostrava vent’anni, si vantava di aver visto un film a luci rosse in un cinema per adulti. Ma Diego non ci credeva, dopotutto nemmeno gli interessavano le donnine nude, non gli erano mai interessate. Se fosse stato un po’ più sveglio e sincero con se stesso, avrebbe dovuto ammettere di aver passato troppi minuti a contemplare l’immagine del David di Michelangelo sul libro di Storia dell’arte. Si morse il labbro spaventato da come facesse il paro con quella specie di sogno che aveva fatto prima di dormire e poi fu sicuro di averlo anche sognato a quel tizio tutto sporco e con quella balza di capelli ricci. Oscillando la testa concluse che fosse ora di vestirsi. Presto il sole sarebbe sorto e lui doveva andare a scuola. Il suo primo giorno di scuola.
Sotto trovò sua madre già perfettamente sveglia. Evidentemente il fuso orario era ancora lontano da smaltire. Latte e fette di pane imburrato attendevano di essere mangiate ma, complice la nottataccia che aveva passato, lo stomaco dell’adolescente si contrasse. “Mamma mi fai un tè? Non mi sento tanto bene...”
“Ma certo cucciolo” era abituata all’inappetenza del figlio, fin da quando era nato aveva tribolato per farlo nutrire e da quando era depresso per la morte del padre, sembrava più che mai disinteressato al cibo.
“Mi lavo i denti e vado” annunciò tirandosi in piedi.
Rosa gli preparò dei panini (sua cognata le aveva fatto trovare la dispensa piena) e li mise nel suo tascapane.
Pochi minuti dopo Diego era fuori, in attesa dello scuola bus, i suoi cugini appena pochi distanti da lui. Essendo più grande, Samuele non frequentava più il liceo ma l’università, però il mezzo che li avrebbe portati tutti a Melbourne era lo stesso. Non c’erano mezzi pubblici che unissero il villaggio che sulle cartine geografiche non aveva nemmeno un nome ma che gli abitanti e anche gli altri avevano denominato Wild Italy, e non serve spiegarne il motivo. Per questo a Wild Italy tutto faceva virtù e se uno aveva una cosa, ad esempio la mietitrebbia, la prestava agli altri. Una piccola comune, uno spaccato di socialismo vero che affascinava quelli dei villaggi vicini, con nome e sindaco, i quali non riuscivano nemmeno a decidere il nome di una via senza scannarsi.
O, anche loro avevano avuto delle magagne in passato, tipo quando si era trattato di erigere una chiesa. I più comunisti, certi toscani di Pistoia, avevano messo veto assoluto, ma, alla fine, gli immigrati del sud, tra cui Augusto, stanchi di dover fare miglia per andare a messa, avevano avuto la meglio e da circa sei anni avevano pure una piccola chiesa, con tanto di parroco e perpetua.
Immobili, in attesa del furgone, Samuele domandò al cugino: “Do you like Australia?” provocatorio. Diego rispose sfacciato: “Overly sky for me” e si voltò dalla parte di dove si aspettava arrivasse il mezzo di trasporto. Tim e Samuele si guardarono e poi scoppiarono a ridere. Il più piccolo, con la sua parlata ancora più strana del fratello, continuò a provocarlo: “Ti mancano i palazzi, i portici?”
“Che ne sai tu dei portici?” Diego gli imbruttì. Sapeva essere minaccioso con quella sua aria angelica, quando tirava fuori le palle, quando esibiva una certa espressione truce, riusciva davvero ad incutere timore e Tim, nonostante fosse alto già un metro ottanta, si accucciò dietro il fratello. Accompagnate dal padre, arrivarono anche due ragazzine rispettivamente di dodici e otto anni e poco dopo un altro paio di bambini. Alle sei e mezzo in punto un furgone aperto vecchio di almeno una dozzina di anni e conciato piuttosto male, li raggiunse. Diego non riusciva a capacitarsi che quell’affare fosse in grado di portarli fino in città, e, dall’odore di olio bruciato che emanava, fu sicuro che non sarebbero andati lontano. A guidarlo, come anticipato dallo zio Augusto, quell’impiastro che il giorno prima lo aveva redarguito. Si chiuse ancor di più stringendosi nel giacchetto di jeans.
Nella parte di furgone destinata ai bambini, ma che Diego avrebbe visto meglio destinata alle balle di fieno, sedevano già due ragazzi, uno di undici e l’altro di nove anni, i figli di Michele. Il piccolo aveva capelli corti rasati e occhiali dalla montatura enorme, una testa piccola ed era magrissimo. L’altro invece già molto alto, più robusto e con i capelli più lunghi ma stranamente lisci e ordinati, tutto l’opposto di suo padre. Stavano zitti e seri, distanti dai sui cugini. Diego intuì subito che ci fossero due fazioni e che i ragazzi dell’uomo degli struzzi non facevano parte di quella dei suoi cugini. Nonostante l’ostilità con il loro padre, si sentì di parteggiare per i piccoli, dopotutto i suoi cugini con quella loro aria altezzosa, che gli parlavano in inglese australianizzato per farlo sentire diverso, non godevano delle sue simpatie. Pensò però che sua madre ne avrebbe sofferto e così decise di sotterrare un’eventuale ascia di guerra ma non si schierò da nessuna parte. Restò nel mezzo tutto il viaggio. L’unica cosa che non riuscì ad evitare di fare fu di sbirciare l’autista, almeno la sua chioma. Ma notò che ogni tanto anche questi si voltava per guardarlo. Quel gioco di sguardi lo eccitò in misura esagerata tanto che dovette più volte cambiare posizione al suo affarino e fu sicuro che, all’arrivo a scuola, gli avrebbe fatto male.

*****
Dopo quasi un’ora e mezza di viaggio, finalmente giunsero in vista della città di Melbourne.
Diego si guardò intorno, il suo senso artistico allertato, pensando alla Mole, al Palazzo Reale, a tutta quella Torino antica e bellissima, e vedendo davanti a sé una città moderna ed essenziale.
Pensò che avrebbe avuto modo di girarla e osservarla, o almeno lo sperava.
Nel quartiere di Carlton, Michele fermò il furgone, e i ragazzi cominciarono a scendere.
Anche Diego si alzò, sgranchendosi la schiena dolorante a causa degli scossoni, e con andatura indecisa si accinse a seguire i cugini. Scendendo non riuscì a fare a meno di girarsi verso l’autista, ritrovandosi i suoi occhi neri puntati sul viso: sentì che stava arrossendo, ripensando alla sera prima, a quando aveva pensato a lui mentre… Cazzo!
Decise di guardare definitivamente avanti e saltò giù dal furgone. Samuele li salutò e si avviò verso l’Università. I piccoli John e Pete, i figli di Michele, lo guardarono timidamente, facendogli un cenno e avviandosi a loro volta verso la scuola elementare. Tim lo guardò e gli disse: “dai vieni, stammi dietro, penso che saremo nella stessa sezione noi due. Vedi di non farmi fare figure di merda con i compagni”.
Diego gli rispose a tono: “Sono sicuro che ce la fai senza il mio aiuto” e mostrando una sicurezza che non aveva, lo seguì.
La High school era una grande costruzione in stile anglosassone. Entrando, Diego sentì l’agitazione aumentare a dismisura. Che accoglienza avrebbe avuto?
Lo assegnarono effettivamente alla stessa sezione di Tim. L’insegnante lo trattenne vicino alla cattedra per permettergli di presentarsi alla classe. Diego si sentì morire ma cercò di non darlo a vedere, e come spesso accade ai timidi gli uscì un atteggiamento arrogante, mentre metteva insieme due parole di presentazione.
Quindi si sedette al posto che gli venne indicato, in fondo all’aula. I ragazzi lo guardarono con ostilità, le ragazze al contrario, con interesse. In una classe di ragazzoni sportivi e muscolosi, Diego era decisamente l’alternativo della situazione. Scapigliato, con un ciuffo ribelle che gli cadeva su l’occhio sinistro, pallido e magro com’era, la sua espressione tormentata; non poté che intrigare la fauna femminile.
Cercò di seguire la lezione come meglio poteva, ma era distratto e aveva nella mente troppe cose che lo turbavano.
Osservò le ragazze che ridevano e parlottavano tra loro, guardandolo e mandandogli chiari messaggi.
Valutò che erano tutte piuttosto carine, ma la cosa in quel momento gli era del tutto indifferente.
Michele ormai occupava tutti i suoi pensieri, lo aveva costantemente in testa: lo rivedeva alla guida dell’autocarro mentre lo guardava di nascosto, e risentiva le sue mani sulle proprie spalle, nella stalla degli struzzi il giorno prima. Il ricordo dello sguardo minaccioso con cui lo aveva affrontato lo fece sussultare, ma ciò che veramente lo fece star male fu la frenesia sessuale che questi pensieri gli mettevano.
Gli stava succedendo qualcosa, gli stavano succedendo troppe cose tutte insieme, e non sapeva come avrebbe fatto ad affrontare tutto quanto.
When I find myself in times of trouble, Mother Mary comes to me, Speaking words of wisdom, let it be. And in my hour of darkness She is standing right in front of me, Speaking words of wisdom, let it be”. Diego si chiedeva chi sarebbe andato da lui con parole sagge, per toglierlo da quell’angoscia, ma non sapeva darsi risposta.
Finalmente la mattinata finì, e Diego si precipitò fuori incurante delle ragazze che avrebbero voluto fermarlo per parlare un po’ con lui, conoscere quell’italiano misterioso e sfrontato.
Fece di corsa la strada che lo avrebbe portato al luogo dell’appuntamento col furgone, e lo vide giungere contemporaneamente a lui.
Nessun altro ragazzo era ancora arrivato, quindi Diego salì a bordo, timido, senza sapere come comportarsi.
Michele lo tolse dall’imbarazzo dicendogli con fare dolce e tuttavia burbero: “Scusa ragazzo per ieri, ma stavi facendo la più grossa cazzata della tua vita, ho dovuto fermarti” lo fissò accigliato.
Diego arrossì, a quanto pareva davanti a lui non poteva proprio farne a meno, e disse solamente: “è tutto ok” sedendosi alle sue spalle. Inspiegabilmente si sentì meglio, e addirittura gli uscì un sorriso.
In quel momento arrivarono i figli di Michele. Il padre fece loro una ruvida carezza sulla testa e li spinse verso il cassone. I ragazzini guardarono Diego, e il piccolo Pete si sedette subito vicino a lui, fissandolo con gli occhi che sembravano enormi sotto gli occhiali spessi. John al suo fianco.
Diego osservò a sua volta Pete e gli sorrise. Il suo sorriso ebbe un riflesso immediato sulla faccia del bambino.
Pian piano arrivarono anche tutti gli altri ragazzi, e Tim subito apostrofò Pete dicendogli: “smamma rospo, quello è il mio posto”. Pete, spaventato si alzò immediatamente, ma Diego lo trattenne, e facendolo tornare seduto rispose a Tim: “trovatene un altro, non credo che tu l’abbia pagato no?”. Tim arrossì, ma non ebbe il coraggio di rispondere a Diego, soprattutto perché Samuele si sarebbe fermato all’Università per qualche giorno, e non poteva nascondersi dietro di lui. Si spostò più avanti nel furgone, sibilando all’indirizzo di Diego: “questa me la paghi”.
Diego alzò le spalle con noncuranza e girandosi vide tre paia d’occhi ugualmente neri che lo fissavano: lesse rispetto in quelli di John e Pete, ma non riuscì a decifrare quelli di Michele.
Scrollò la testa e si accinse ad affrontare il resto della giornata.
Diego fu l’ultimo a scendere dal furgone. Salutò Michele e i ragazzini e fece per avviarsi verso casa, ma Michele lo richiamò. Avvicinandosi a lui gli intimò: “Lascia perdere i miei ragazzi, devono arrangiarsi da soli, non hanno bisogno di un difensore”.“Ma…” fece Diego.
“Fai come ti dico. Loro non sono come te, non cresceranno col culo coperto, i miei ragazzi devono imparare a guadagnarsi la vita e il rispetto delle persone da soli” continuò Michele. “Ma sono piccoli, credevo…”. “Non capisci niente, e non mi stupisce. I miei ragazzi sanno già lavorare come uomini, sanno che presto dovranno lasciare la scuola per aiutarmi”.
“Ma non è giusto, non puoi farlo, i ragazzi hanno il diritto di studiare, non puoi obbligarli” Diego non sapeva nemmeno il perché, ma sentiva di dover difendere i ragazzini anche dal loro padre.
“Zitto, tu non sai un cazzo della vita, sei un figlio di papà che pensa di sapere tutto, ma non è necessario andare a scuola nella vita per riuscire. E adesso vattene, và, sparisci” Michele lo spintonò, e tornato alla guida del furgone, ripartì lascandosi alle spalle una nuvola di polvere.
Diego rimase a guardarlo andar via con un gran peso sul cuore.

3 commenti:

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  2. Woah. Che incontri turbolenti fra questi due! Mi piace! Da morire!
    Ragazze, siete grandi! <3

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    1. Grazie cara, è merito di entrambe dunque posso non solo ringraziarti ma aggiungere un mio commentino... mi piace tutto! L'atmosfera, la psicologia dei personaggi, la profondità di certe scene e la sintesi di altre. Scrivere con Annamaria è comne scrivere con un mio clone, un clone di Giusi, dunque facilissimo. Come potrei trovare da dire su me stessa? Soprattutto sapendo quanto sono vanitosa e saccente... ihihihihihi grazie cmq ad entrambe... e a presto per il 4

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