lunedì 1 aprile 2013
Tra rabbia e passione, ottava puntata
Titolo: Tra rabbia e passione (cronaca di una torbida relazione fra trulli ed onore)
Autori: Annina e Giusipoo
Pairing: Diego Perrone/Michele Salvemini
Genere: AU/Storico/Commedia/Erotico/Romantico/Introspettivo
Storyline: Fine anni settanta
Rating: PG, slash, NC 13
Disclaimer: si intenda tutto frutto della fantasia e del talento delle autrici. In verità i personaggi sono originali, abbiamo preso in prestito i nomi per ispirazione artistica e basta
Capitolo
otto
Dopo tutte
quelle ore di treno, Diego era decisamente cotto. Nonostante questo, cercò di
darsi un tono con i genitori, venuti alla stazione a prenderlo. Dopo gli abbracci
e i ‘sei sciupato’ della madre, lo accompagnarono alla macchina. A casa rifiutò
tutto quello che madre, zia e nonna, litigandoselo per coccolarlo un po’, gli
offrirono. A parte un piatto di minestra, l’unica cosa che mandò giù volentieri
furono i due bicchieri di prosecco che suo nonno elargì. Mezzo brillo, si
appisolò quasi subito sul divano, con il gatto che ben presto andò a farsi le
unghie tra i filati del suo maglione, tutto felice.
“Povero
piccolino” ruminò sua madre: “Andare a fare il carabiniere fin laggiù, certo
che siamo una bella famiglia di storti” oscillò la testa.
“Meglio che finire in fabbrica come noi” concluse suo padre accendendosi un toscano e
ruminando tra sé una bestemmia. “Almeno è rispettato per la divisa che porta”.
In piena notte,
Diego si svegliò dallo scomodo giaciglio per tornare nella stanza che sua madre
aveva rimesso a posto per lui. Ma, una volta nel letto della sua infanzia, non
riuscì a prendere sonno. I sogni sulle profezie di Berlinguer si confondevano
con il ricordo dell’amico Alfredo e di Michele... per quanto provasse a non
pensarci, l’operaio tornava sempre ad invadere la sua testa... questa testa bacata che mi ritrovo!
Pensò ai due uomini, a quanto fossero diversi. Anche politicamente. Pure loro
erano diversi da quel punto di vista. Alfredo era di destra e non lo
nascondeva, convinto com’era che i comunisti avrebbero portato l’Italia alla
rovina e che per mantenere l’ordine ci voleva il pugno di ferro, contro i
malcostumi dei neo hippy, figli dei fiori, pro abortisti e anticlericali. Diego
invece mal celava le sue idee progressiste; secondo lui le forze dell’ordine
erano i primi a rimetterci in uno stato di polizia come quello. E i
carabinieri sarebbero diventati sempre più poveri se il paese fosse restato in mano
a quegli sciagurati della Democrazia Cristiana, incapaci di tirarli fuori dalla
melma della recessione. In poche parole, secondo Diego, diminuendo gli stipendi
di impiegati e operai, allungandosi così il crepaccio tra padroni benestanti e
la gente che lavora, sarebbero stati peggio tutti, per primi loro, che erano
solo dei semplicissimi servi dello stato. Che rischiavano la vita per
salvaguardare quella degli altri. “Salvare la vita? Di gente tipo quel
Salvemini? Allora meglio se mi sparo un colpo in fronte” si sentì dire da
Alfredo qualche sera dopo che gli aveva confidato dell’aggressione. Alfredo
detestava quelli come Michele Salvemini, che definiva più volte feccia. E non
si mostrava per niente stupito del fatto che avesse attentato all’onore del suo
amico. “Sono esseri viscidi, immorali. Che pensi facciano in quella radio? Nei
centri sociali? Le orge ci fanno Diè! Quello prende il primo culo che trova e
ci infila il cazzo. Come animali sono. Per lui tu o una pecora non fa
differenza. È per gente così che devo rischiare la pelle?” Al ché Diego aveva
annuito. Anche se non credeva affatto che lui, per Michele, equivalesse ad una
pecora. Alfredo era piuttosto misurato quando si parlava di persone
sessualmente deviate. Come gli altri si limitava ad un laconico: poveretti loro. La stessa terminologia
che avrebbe scelto per definire un cieco, uno storpio o un malato terminale.
Eppure, nonostante questo, in cuor suo sentiva che Alfredo gli voleva bene in
una maniera molto più che fraterna. Se lo avesse voluto sul serio, Diego era
convinto che lo avrebbe convertito facilmente. Sì, Alfredo una capatina in quel
di sodoma senza sentirsi un minorato mentale, l’avrebbe fatta eccome, se Diego
avesse premuto i tasti giusti. E magari avrebbero potuto essere felici, amarsi
e vivere tranquilli fino alla vecchiaia. In due carabinieri amanti c’era
qualcosa di romantico, sicuro. Diego sorrise amaro quella mattina, prima di
arrivare sulla pedana dove avrebbe rappresentato la sua regione ai campionati
nazionali di nuoto. Il problema che lui non voleva Alfredo, lui voleva Michele.
Alfredo andava benissimo come amico del cuore, ma era da Michele che avrebbe
voluto farsi inculare fino alla fine dei suoi giorni. Aggiustandosi la cuffia e
lisciandosi i baffi in un gesto di nervoso, buttò lo sguardo verso gli spalti
dove riconobbe i suoi genitori e la sua zia zitella. Al fischio dello starter
si tuffò in acqua, elegante. Fece una gara onesta, come sempre, ottenendo un
buon piazzamento e per tutto il giorno continuò così e anche nei giorni a
seguire. Gli ultimi tre, libero da impegni sportivi, scrisse due righe ad
Alfredo che poi chiamava ogni giorno con il telefono a gettoni. Questi si tenne
ben lontano dal dire che aveva attentato alla faccia di Michele Salvemini e al
suo ritorno, accettò il regalino dell’amico: una stecca di MS con filtro, che
il suo commilitone gli porse sorridendo. Per sua fortuna, Diego aveva troppo
sonno e troppi pensieri per accorgersi che il piglio di Alfredo era amaro. E
arrivare a capire che era accaduto qualcosa.
Dopo pasqua,
passate anche le gare, Diego tentò di tornare come prima, ma tutte le volte che
si recava in piscina, la presenza dell’amico gli rammentava la molestia di
Michele; Alfredo, chiuso nel suo buffo costume adamitico bianco e verde, con la
pancia che trasbordava dai tutti i lati e la peluria fitta rossiccia, restava
sempre accanto a lui. La sua presenza non faceva che metterlo ancora di più in
imbarazzo. Si sentiva come un ragazzino che ha bisogno di protezione, o come
una donzella che deve preservare la propria illibatezza.
Per qualche
giorno non si incrociarono, ma un venerdì sera di maggio, quando l’aria ormai
era calda e la gente aveva iniziato a vestirsi leggera davvero, di nuovo
incontrò Michele dalle parti della piscina. Questa volta però nel campo da
calcio, ormai ristrutturato e pronto per essere calcato dagli amanti della
pedata. Alfredo era in acqua, Diego stava per tuffarsi quando, attraverso la
vetrata, vide Salvemini che lo fissava attonito. Malgrado la distanza e il
divisorio, notò una cicatrice sotto il labbro che prima non c’era. Dopo che il
suo cuore perse qualche battito, si tuffò e Michele tornò dai suoi amici. A
quel punto Diego non riuscì più a nuotare e chiese ad Alfredo di anticipare
l’uscita adducendo come scusa un improvviso mal di testa dovuto alla cuffia.
“Ti è cresciuta
la testa?” Alfredo lo prese bonariamente in giro ma Diego si limitò ad annuire,
senza senso dell’umorismo. Per sua sfortuna, l’uscita anticipata coincise con
il rientro negli spogliatoi dei giocatori di calcio, i quali, passando di
fronte al povero carabiniere, scoppiarono in una risata canzonatoria. Non Paz,
e nemmeno Michele. Ma gli altri, ignari di tutto, non persero l’occasione di
sbeffeggiare i due caramba. Scuro in volto Diego prese la sua roba e si nascose
in bagno dove pianse. Pianse per quello che provava, pianse per le risate degli
altri e per la serietà di Michele, pianse perché si rese conto più che mai di
essere innamorato di lui, un amore così forte che avrebbe finito per portarlo
alla pazzia, ne era sicuro. E, malgrado questo, lo odiò e desiderò non averlo mai
conosciuto. Diego avrebbe voluto preservare la sua assennatezza ma si sentiva
sempre più trascinare nel fango. Ma io
sono un carabiniere, devo pensare alla mia divisa, al mio onore! Cercò di
convincersi e, raccolte la lacrime nei pugni, si vestì. Fuori ci trovò fuori
Alfredo, nero in volto e più che mai deciso a vendicarsi.
Michele entrò
nel portone e salì la prima rampa di scale, poi si fermò. Da qualche giorno gli
amici lo avevano lasciato libero di muoversi. Erano solo poche settimane,
eppure gli era sembrato fin troppo lungo il periodo in cui lo avevano
sottoposto a una sorveglianza più che speciale. E con tutti gli impegni che
aveva, non si era goduto più la sua amata libertà. Doveva festeggiare. Aveva
bisogno di stare da solo. Scendo al mare,
un po’ di tranquillità mi ci vuole. Saltellò giù dai gradini e si precipitò
in strada. Era ancora presto, nemmeno le quattro, poteva godersi una bella
passeggiata sul lungomare.
Rimase un attimo
indeciso se prendere l’auto o andare a piedi da lì, alla fine erano solo dieci
minuti di strada, ma poi pensò che aveva anche voglia di guidare un po’. Salì
sulla Renault e si diresse verso il mare. Fece scendere il finestrino e si
godette l’aria tiepida sul viso, sorridendo. La libertà, questa è la libertà. Uscì dal paese, e raggiunse la parte di spiaggia
più selvaggia, isolata; parcheggiò e si buttò correndo verso la riva. Si tolse
scarpe e calze e immerse i piedi nell’acqua calda. Con le mani sui fianchi
restò a guardare la distesa del mare blu: gli toglieva quasi il fiato, nella
sua bellezza. Sembrava tutto perfetto così, sembrava che tutto andasse bene nel
mondo. E per un po’ voglio far finta che sia così. Oggi era felice anche solo
di esserci al mondo. Gli venne in mente La
radio di Finardi e cominciò a cantarla, prima a mezza voce e poi a voce più
alta, tanto era solo lì.
Non era solo
Michele: non si era accorto che per tutto il tempo era stato seguito da
un’auto, una vecchia Simca bianca. “Lo stronzo si sta impiccando da solo! Ci
sta facilitando le cose. Ora lo lasciamo passeggiare un po’, e quando torna ci
trova ad aspettarci qui”. Ferrero cominciò a ridere imitato dal carabiniere
alla guida. Diego, sul sedile posteriore, fece un sorrisetto, ma gli occhi tradivano
la sua inquietudine.
“Tranquillo
Perrone, non ci scoprono, e anche se ci scoprono a chi vuoi che importi se
abbiamo dato una lezione a quel delinquente del Salvemini? Se morisse, ci
sarebbe una festa in caserma, te lo dico io!” Tropea si accese una sigaretta,
aspirando il fumo con evidente piacere, pregustando il momento in cui avrebbe
messo le mani addosso a quel coglione. Quando Alfredo gli aveva raccontato
quello che l’operaio aveva fatto al commilitone di Torino, aveva avuto l’impulso
di prendere l’arma e uscire subito a cercarlo per finirlo. Tropea era il
classico carabiniere inquadrato di destra estrema. Come tutti quelli della sua
pasta, non conosceva altro che la violenza per sistemare le cose, e spedizioni
punitive come quella erano il suo piatto preferito. Alfredo lo sapeva, per
questo si era rivolto a lui. Aveva organizzato benissimo tutto: qualche giorno
di tregua per dare l’illusione che l’avvertimento avesse chiuso il discorso,
poi aveva chiesto in prestito l’auto a persone fidate. Quello era il terzo
pomeriggio alle calcagna di Michele, e lui si era messo in condizioni di farsi
del male!
“Non è il primo
pestaggio per me, per voi non so. Le vittime non parlano mai dopo, hanno troppa
paura, quindi stiamo sereni!”. Tropea e Ferrero passarono la successiva
mezz’ora a chiacchierare placidamente di calcio e spettegolando, mentre Diego,
il cappello d’ordinanza calcato sulla fronte a coprire gli occhi, si tormentava
il labbro a suon di morsi. Ora che c’era dentro, non voleva più che succedesse,
non voleva dare nessuna lezione a Michele. Lui voleva Michele, voleva ancora la
sua mano addosso, sui fianchi: le sue mani sui fianchi mentre si muoveva dentro
di lui, ecco cosa voleva lui da Michele. La sua mano… ma soprattutto il suo
cazzo... Il respiro di Diego accelerò notevolmente. Alfredo si girò verso di
lui: “Diego, devi stare calmo, non ci succederà niente. Guarda, facciamo una
cosa, ci pensiamo io e Gerardo a sistemarlo, tu stai con noi e basta, al limite
tieni la pistola in mano. Va bene? Io ti capisco, sei giovane, hai paura per la
carriera, non ci pensare. Lascia fare a noi, vero Tropea?”.
“Ma certo!
Perrone, facciamo noi. Devi ancora temprarti un po’, ma ha ragione Alfredo, sei
troppo giovane, quando avrai la mia età capirai che non c’è altro modo per
tenere a freno questi caproni”. Tropea si accese un’altra sigaretta, e poi
scattò sul sedile: “Eccolo che torna. Dai, appena è qui davanti si esce dalla
macchina e gli si va incontro, chiaro?”.
Un attimo
ancora, poi Alfredo diede l’ordine di uscire: i due anziani si misero ai lati
di Diego, manganello alla mano, e si incamminarono sulla spiaggia. Michele,
seduto verso il mare mentre si infilava le scarpe da tennis, non vide subito il
crocchio alle sue spalle, ma l’ombra che si allungava e ne percepì la presenza
con un brivido. Si girò di scatto e rimase impietrito. È fatta, sono morto... Michele diede un’occhiata rapida in giro ma
non c’era anima viva, era prevedibile. L’istinto gli disse di alzarsi e
tuffarsi, cominciare a nuotare, ma la pistola nella mano di Diego lo bloccò.
Quanta pena gli fece quel ragazzo: nessuna rabbia, nessuna sete di vendetta,
solo una tenerezza infinita. Avrebbe voluto abbracciarlo, baciarlo, consolarlo
quasi. Lui lo teneva sotto tiro e, proprio in quel momento, Michele capì che lo
amava sul serio. Poi tornò alla realtà: stavolta
non te la cavi Michè. Sentì le lacrime pungere dietro agli occhi: pensò a
suo padre, a Pazienza, persino a Gemma pensò. Alfredo e quell’altro avevano
un’espressione cattiva, si capiva che non vedevano l’ora di spassarsela con
lui. Alfredo per vendetta, quell’altro per mero divertimento. Fissò il viso del
biondino: i suoi occhi no, non erano cattivi, erano ansiosi, spaventati anche,
ma non mostravano odio. Tutt’altro. Prova
le stesse cose che provo io, ma allora perché...
“Alzati
lentamente Salvemini e avvicinati” Tropea gli fece segno col manganello.
Michele ubbidì,
si alzò adagio, e lentamente si avvicinò al trio: le gambe molli, il cervello
alla deriva, alla ricerca di una via di fuga, che non c’era.
Tropea e Ferrero
gli si misero ai lati, giocando col manganello: “Allora Salvemini, hai perso la
parola? Eppure di solito non stai zitto un attimo, com’è? Hai paura Salvemini?”
Alfredo gli parlò mellifluo, pungolandolo col manganello nel fianco,
spintonandolo.
“Non ho fatto
niente stavolta, non capisco…” un’altra spinta e Michele cadde nella sabbia.
Guardò Diego che continua a tenerlo sotto tiro, pallido e in silenzio.
Il primo calcio
nel fianco arrivò da Alfredo: “Non hai fatto niente Salvemini? Pensaci, vedrai
che ti viene in mente qualcosa: pensaci finché ne sei ancora capace. Te la
facciamo passare noi la voglia di dare fastidio ai carabinieri e poi andare a
raccontare le tue prodezze ai tuoi amici, è per questo che ridevano l’altro giorno
in piscina no?”.
“Ma cazzo dici,
ridevano perché sei un panzone” ribatté, a quella Alfredo gli mollò uno
sganassone tra capo e collo mentre Tropea, con il solito ghigno animalesco gli
smollò un calcio e lo prese alla spalla. Fu il suo turno: “Dovevi pensarci
prima Salvemini; non si può molestare un carabiniere e pensare di farla franca.
Ora la paghi brutto coglione”.
Calci e
manganellate si abbatterono su Michele, che ormai pensava solo a proteggersi la
testa con le braccia, raggomitolato su sé stesso, la paura che lo aggrediva da
dentro, quella faceva più male delle botte: mi
ammazzano, mi ammazzano, mi ammazzano…
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A Michele basta un solo sguardo per capire quello che cela Diego nel suo cuore. Si rassegna a quello che sta per accadere. Io spero solo che Diego li fermi prima che sia troppo tardi, che si renda conto dello sbaglio che sta facendo. Diego è combattuto dalla vergogna di quello che gli è successo e dal desiderio che prova per Michele, per qualcuno che sembra diverso da lui, ma che in realtà è più simile di quanto pensi. Manca poco perchè la scintilla scoppi facendo parlare solo la passione. Ahhhhhhh che commento delirante.
RispondiEliminaabbastanza sì.... :D
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