mercoledì 3 aprile 2013

Tra rabbia e passione, nona puntata



Titolo: Tra rabbia e passione (cronaca di una torbida relazione fra trulli ed onore)
Autori: Annina e Giusipoo
Pairing: Diego Perrone/Michele Salvemini
Genere: AU/Storico/Commedia/Erotico/Romantico/Introspettivo
Storyline: Fine anni settanta
Rating: PG, slash, rigorosamente NC 17
Disclaimer: si intenda tutto frutto della fantasia e del talento delle autrici. In verità i personaggi sono originali, abbiamo preso in prestito i nomi per ispirazione artistica e basta




Il pestaggio durò pochi minuti, ma a Michele sembrò una vita, poi risuonò la voce di Diego: “Via, via arriva qualcuno. Alfredo andiamo” Lui si guardò intorno: “Dove? Non vedo nessuno” “Via, dietro quella duna c’è gente, stanno venendo verso di noi, andiamo!” Frenetico, Diego mise via la pistola e prese Alfredo per un braccio tirandolo verso la strada, ma Tropea, simile allo squalo che sente l’odore del sangue, sembrava incapace di fermarsi. No, proprio non ne voleva sapere di smettere; le sue manganellate continuavano a percuotere la schiena di Michele.
Diego gli corse vicino strappandolo via e trascinandolo con sé, tirando più forte che poteva: “Via Tropea, arriva gente, via!”. Riuscì a riportarli in macchina, e Tropea, una volta al volante, girò la chiave e dopo una rapida inversione accelerò per quanto poteva permetterglielo una Simca. Diego, sul sedile posteriore guardava ancora Michele, riverso sulla spiaggia, immobile. Un’ansia spaventosa si impadronì di lui: Cos’ho fatto? Cos’ho fatto? L’hanno ammazzato, ed è colpa mia, solo mia. Michele, Michele…
“Ferma! Tropea ferma la macchina! Fammi scendere!” Urlò talmente forte che il carabiniere alla guida inchiodò, girandosi a guardarlo spaventato.
“Lasciatemi scendere” cercò di cambiare tono. “Scusatemi, ho bisogno di fare due passi. Alfredo non preoccuparti, è che quando ho visto che arrivava gente mi sono spaventato, se ci denunciano…” Diego scese di colpo dalla macchina seguito da Alfredo.
“Ti sei sbagliato. non c'era nessuno. Ma non importa. Vengo con te Diego, facciamo due passi insieme. Ho capito la tua paura, ma non devi preoccuparti, non ci scopriranno, e anche se fosse, non ci farebbero niente”.
“Lo so, ma io non voglio dovermene andare… lasciami stare Alfredo! Torno a piedi in caserma, così mi riprendo” Diego era ansioso di liberarsi dei colleghi perché, come ovvio, voleva tornare da Michele, accertarsi che fosse vivo, stare con lui.
Alfredo assentì e risalì in macchina mentre Tropea inseriva la marcia: “Devi rafforzarti un po’ Perrone o non ce la farai mai a stare al nostro passo. Ma ci siamo divertiti vero?” E ridendo sguaiatamente si buttò di nuovo sulla provinciale verso Bisceglie.
Diego finse di proseguire mentre la macchina spariva in lontananza, poi si girò di scatto e cominciò a correre sul ciglio della strada verso il punto dove avevano lasciato Michele.
Ci mise due minuti, gli sembrarono due anni. La Renault era sempre lì ferma. La superò buttandosi a capofitto verso la spiaggia: Michele non era più sdraiato ma seduto a gambe incrociate che guardava verso il mare. Si voltò verso di lui, l’espressione sofferente: “Sei venuto a finirmi Diego? Accomodati pure” le labbra sanguinavano. Diego non rispose ma si portò più vicino a lui e si accovacciò al suo fianco: “Fa molto male?” chiese scioccamente.
Michele lo guardò con espressione stupefatta, poi crollando la testa tornò a fissare il mare, tenendosi le costole martoriate.
Diego si rialzò continuando a guardarlo, dentro di lui i pensieri si agitavano e si scontravano: il ricordo della mani di Michele addosso, il pensiero di quello che gli aveva fatto. Non mi vorrà più ora. Chiuse gli occhi. Sei un cretino Diego, quando mai ti ha voluto? Però l’aveva detto, in piscina me lo aveva detto che mi voleva… Macché, Diego, ti prendeva per il culo!
Nel frattempo Michele si era faticosamente alzato in piedi e si stava tastando: aprì la camicia per guardarsi e vide che c’era già qualche livido. “Allora? Posso andare? O vuoi spararmi? Facciamola finita qui”.
“Non voglio spararti, io sono tornato…” Diego costatò che davanti a lui non riusciva neanche a finire un discorso. Ma allungò una mano per toccare un segno sul petto di Michele e la ritrasse come se si fosse scottato.
“Ti piaccio ancora carabiniere? E allora perché mi hai fatto pestare? Bastava chiedere…” l’ironia in Michele non si era sopita nemmeno dopo le botte. Diego lo fissò negli occhi e avvampò. Sentiva il bisogno di toccarlo, voleva che lui lo toccasse, ma soprattutto…
Le parole gli uscirono dalla bocca senza che lui avesse intenzione di pronunciarle: “Va bene Michele, te lo chiedo: vuoi venire con me? Te la senti? La proposta me l’hai fatta tu, ricordatelo”.
“Tu sei matto carabiniere, matto da legare. Dove dovrei seguirti? E per fare che? Non ci penso nemmeno”. Pur claudicante, Michele tirò fuori dalla tasca le chiavi e s’incamminò verso la sua auto. A quel punto qualcosa in Diego scattò: concitato tolse di nuovo la pistola dalla fondina e gliela puntò alle spalle: “Allora non te lo chiedo più, te lo ordino: seguimi Salvemini”.
Michele rimase di sasso perdendo quel poco colore che aveva a fatica ripreso: “Stai scherzando? Vuoi farmi fuori davvero? Senti piantiamola…”. Diego scrollò la testa e, una volta che l’ebbe superato, con la punta dell’arma gli fece segno di incamminarsi: “Prendiamo la tua macchina, guidi tu, io ti indico la strada. Non discutere, la pistola la so usare e anche bene” il piglio era serio, ma la voce tremante, incerta. Pungolandolo al fianco con la canna, lo fece salire sulla vettura e rapidamente prese posto accanto lui.
“Prendi la provinciale da quella parte e vai sempre dritto fino al bivio, poi tieniti a sinistra” Diego, appoggiato alla portiera, teneva la pistola ben salda in mano, puntata verso di lui.
Partirono. In quel momento Michele si sentiva anche più spaventato di prima: Diego era chiaramente instabile, non sapeva quello che stava facendo, era capace di sparargli davvero. Magari anche per sbaglio! Nel frattempo, giunto al bivio, girò a sinistra. Dopo qualche chilometro Diego gli indicò un cortile dove dalla stradina si notava una cascina chiaramente disabitata. Si trattava di un fienile col tetto quasi completamente scoperto. Conosceva quel posto perché giusto due settimane l’aveva perlustrato con i suoi colleghi. “Entra dentro e spegni il motore”. Michele obbedì. Uscendo dall’auto vide il cielo sopra: dalle travi di legno ancora tanta luce entrava. Tutto sommato erano solo le sei, eppure a lui sembrava che fossero passati secoli da quando si era avviato per fare quella passeggiata in libertà. E guarda come è finita... Sentì la mano di Diego sulla schiena che lo spingeva delicatamente verso il fondo del fienile. Si girò verso di lui. Gli fece di nuovo tenerezza, chiuso nella sua divisa d’ordinanza, il cappello che sembrava un po’ troppo grande, lo sguardo tenero, gli occhi bellissimi come gli erano sembrati bellissimi la prima volta che li aveva veduti: 
“Diego, ti prego... non mi ammazzare! Se mi lasci andare, giuro che non ti guarderò nemmeno più in faccia, non saprò nemmeno più chi sei. Sono stato un coglione, lo so, se vuoi ti chiedo scusa. Mi hai fatto pestare, va bene così. Non ammazzarmi”.
“Fa caldo qui” rispose soltanto, poi rimise la pistola nel fodero, sganciò il cinturone e si tolse anche la giacca, appoggiando tutto sulla paglia lì accanto: “Non ti ammazzo Michele, non potrei. Non so nemmeno io perché ti ho portato qui. Forse quelli come me sono davvero pazzi, non lo so. Vai se vuoi Michele, io in qualche modo tornerò. Vai”.
Lasciando andare un sospiro di sollievo, il sequestrato fece per andare verso la propria auto, ma qualcosa gli impedì di fare un passo in più. Bloccato al centro del fienile, con il sole che gli illuminava la faccia, si rivolse a Diego: “Cosa volevi fare? Cosa volevi farmi?”.
Sul viso di Diego si allargò un sorrisetto dolcissimo: “Lo voglio ancora se è per quello”. Michele rimase fermo, combattuto se fuggire e mettersi in salvo o rimanere e probabilmente perdersi per sempre, lasciandosi contagiare dalla pazzia di Diego.
Diego percepì la sua indecisione, e improvvisamente si sentì forte: Michele tentennò ancora qualche secondo. Forse anche lui… improvvisamente le manette erano nelle mani di Diego, il quale, guardando negli occhi Michele, gliele fermò ai polsi. Lui non si mosse, affascinato dalla sua temerarietà mista a paura; le gambe inchiodate a terra come di piombo. I grandi occhi di Diego puntati nei suoi avevano qualcosa di suadente, di ipnotico. Delicatamente ma con decisione Diego lo spinse verso il muro, bloccandogli le mani chiuse dalle manette a un gancio. Terminò di sbottonare la camicia sporca di sangue e appoggiò le mani al suo petto, accarezzandolo con tenerezza, giocando coi peli scuri, morbidi: Diego teneva gli occhi chiusi e attraverso la bocca semiaperta il respiro usciva rapido, ansante.
Michele sentì ancora quelle mani gelate su di lui, e scoprì che era tutto quello che desiderava. Chiuse gli occhi a sua volta, appoggiando la testa al muro, sussurrando: “Diego, che fai, che vuoi fare”.
Diego non rispose; continuò a tracciare disegni con le dita sul suo petto, sui suoi fianchi, arrivò alla schiena stringendoglisi addosso; le sue labbra si impadronirono dei capezzoli, in un dolce tormento. Michele non capiva più niente, non aveva comunque la forza di parlare. Quando sentì le mani di Diego che gli slacciavano i jeans abbassandoli repentinamente con gli slip, ebbe un sussulto. La bocca di Diego ora correva sul suo stomaco, sulla pancia, superando l’ombelico, mentre le dita lo accarezzavano dolcemente tra le cosce, salivano, giocavano coi suoi peli e poi si impadronivano del suo pene, teso al massimo dell’eccitazione.
“Diego, ti prego, toglimi queste cazzo di manette, fermati, io non sono sicuro, non so…” la voce gli si smorzò in gola: la lingua di Diego, sordo ai suoi richiami, aveva cominciato a percorrere il sesso dolcemente, dal basso all’alto. Lo riempì di baci, lo leccò, lo mordicchiò mentre Michele lo implorava ancora di smetterla. Poi finalmente Diego lo inghiottì, percorrendolo con la mano sempre più velocemente. Michele pensò di non aver mai provato niente del genere: la bocca di Diego che si muoveva sul suo cazzo, i baffi che lo pungevano dolcemente... questo non c’era nei suoi sogni: c’era dell’altro, ma questo no, non l’aveva pensato nelle sere in cui stava appollaiato sul lavabo del bagno pensando a quel carabiniere così bello.
Ora per lui esisteva solo quello: sentiva la testa di Diego tra le sue gambe, avrebbe voluto accarezzarlo, guidarlo, ogni tanto bloccarlo, come aveva fatto con Gemma e con le altre, ma non poteva. O, poco importava: Diego, a differenza delle sue donne, sembrava sapere esattamente quando fermarsi, quando affondare di più, quando andare più lento o più veloce. C’era una pericolosissima sincronizzazione tra i pensieri dell’uno e le azioni dell’altro. A poco a poco Michele non pensò più a nulla, il suo ansimare divenne frenetico, poi, contraddicendo quando affermato fino a poco prima, chiese: “Non fermarti, non fermarti ora.. non fermarti più” e finalmente, con un urlo, gli venne fra le labbra.
Diego rimase per un po’ inginocchiato davanti a lui, poi si rialzò lentamente e gli liberò le mani dalle manette, allontanandosi da lui subito dopo.
Michele, stravolto, si rivestì adagio, e poi si sedette su una pila di paglia lì vicino, tenendosi la testa tra le mani: troppo, in una sola giornata. Troppo in una sola vita! Il male provato durante il pestaggio, che si stava risvegliando in quel momento, e sapeva che sarebbe stato sempre peggio andando avanti, non era niente in confronto al piacere provato pochi minuti prima. E se significava godere in quella maniera, si sarebbe fatto pestare tutti i giorni per il resto della vita!
Alzò la testa e guardò Diego: se ne stava appoggiato allo stipite del portone, illuminato dagli ultimi bagliori del sole che stava tramontando. Si schiarì la voce e lo chiamò: “Hey carabiniere, che fai lì? Lo sai che c’è la tua pistola qui, a mia disposizione? Non sei molto furbo, potrei ammazzarti e abbandonarti qui: chi ti troverebbe?”.
“Forse dovresti farlo, mi risolveresti una quantità di problemi” mormorò Diego, dalla sua voce traspariva più di un’ombra di tristezza.
Michele si alzò e lo raggiunse sul portone, godendosi gli ultimi minuti di sole: “Molto romantici no? Stiamo qui a goderci il tramonto”. Guardandolo meglio, si accorse del luccichio delle lacrime sul bel viso. Non seppe cosa dirgli, rimase in silenzio, ma quelle lacrime lo turbarono. Beh, è un frocio, cosa vuoi aspettarti? Ma subito si diede dello stronzo: se lui è frocio, tu? Si disse che era stato lui ad implorarlo di non fermarsi poco prima, mentre Diego gli faceva il più bel bocchino del mondo.
“Andiamo?” Michele glielo chiese incerto, e Diego annuì in silenzio; andò a rivestirsi. Si rimise la giacca, il fodero con la pistola e salì in auto accanto a Michele, che nel frattempo aveva già messo in moto.
Rimasero in silenzio per tutto il tragitto, nessuno dei due sentiva il bisogno di parlare, ma non c’era nemmeno imbarazzo, nonostante tutto. Un paio di isolati prima della caserma, in una via buia e quasi disabitata, Michele fermò l’auto: “Meglio se non ti porto fino alla caserma, no? Non so come la prenderebbero i tuoi amici vedendoti scendere dalla mia auto”.
“Già, la prenderebbero come i tuoi compagni se ti vedessero riaccompagnarmi in caserma”. Dopo qualche secondo passato ad occhieggiarsi di sottecchi, Diego e Michele iniziarono a ridere, guardando entrambi la strada davanti a loro.
“Va bene, io vado allora” Diego esitò, poi domandò “Come stai Michele? Ti fa molto male? Le botte dico, io...”.
Michele scoppio a ridere un’altra volta: “Ah, credevo il cazzo! Quello forse è l’unica cosa che non mi fa male!” Tornò serio: “Sì, fa male, mi fa male tutto, parecchio. Prenderò un paio di aspirine e speriamo di dormire stanotte”.
Diego annuì e Michele vide ancora le lacrime nei suoi occhi: “Se puoi perdonami, non avrei dovuto dar retta ad Alfredo, non avrei dovuto farlo” un ultimo sospiro: “Vado adesso”.
“Va bene Diego, va bene, dormi tranquillo. Ciao”. Diego chiuse la portiera e si avviò verso la caserma. Michele rimase lì a guardarlo finché non girò nella via. Solo allora mise in moto e si diresse verso casa: aveva una girandola nella testa, e non sarebbero bastate tutte le aspirine del mondo per fermarla.

6 commenti:

  1. Posso dire che mi piace da morire? Cioè, non sarà un pò... massì, amen, lo dico, mi piace da morire! O da impazzire, perchè ci vuole un bel pò di follia dai per metter giù una roba del genere! Cara Gorilla mia, chapeau! <3

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    1. Beh... ma che commento è? Pare che è solo merito mio, 'sto figlio lo abbiamo fatto in due, non te lo dimenticare Gorilla night ;)

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    2. Hahaha! Lo so che è figlio nostro, Gorilla day! E me ne vanto!!! I complimenti che li dividiamo, così come ci dividiamo il giorno e la notte! ;)

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  2. Lo sapevo che non lo avrebbe lasciato lì, che lo avrebbe raggiunto. Bello, bello da pazzi questo capitolo. Diego mi fa impazzire così matto, lui sì che per amore ha fatto follie. Il pezzo nel fienile è semplicemente perfetto. Ora Diego è impresso non solo nella mente di Michele ma anche sul suo corpo che vibrerà di piacere solo quando sarà toccato da lui. Sìììììììììì li amo.

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    1. E' tutta follia qui. Il capitolo è bello da pazzi, Diego ci fa impazzire, l'hanno scritto due schizzate che si scambiano i pizzini tra il giorno e la notte... se poi vogliamo parlare di quanto sono fuori i protagonisti! ;)

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  3. Grazie cicci, sono lusingatissima dalle tue belle parole :)

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