giovedì 28 marzo 2013
Tra rabbia e passione, settima puntata
Titolo: Tra rabbia e passione (cronaca di una
torbida relazione fra trulli ed onore)
Autori: Annina
e Giusipoo
Pairing: Diego Perrone/Michele Salvemini
Genere:
AU/Storico/Commedia/Erotico/Romantico/Introspettivo
Storyline:
Fine anni settanta
Rating: PG, slash, NC 13
Disclaimer: si intenda tutto frutto della fantasia e
del talento delle autrici. In verità i personaggi sono originali, abbiamo preso
in prestito i nomi per ispirazione artistica e basta
Diego soffriva come un
cane. Per quanto si sforzasse di non pensare a niente, quanto successo nello
spogliatoio della piscina continuò a perseguitarlo per giorni. Ci continuò a
pensare ininterrottamente anche quel giorno, mentre preparava borsone e
valigia, diretto a Torino in vista delle gare. Che poi non si sentiva solo in
difetto per essersi mostrato vulnerabile all’uomo che aveva accesso così
pesantemente il suo desiderio malato e sofferto... no. Era con Alfredo
soprattutto che si sentiva in colpa, per essere stato sciagurato, falso,
opportunista. Ora Alfredo lo lisciava, lo sosteneva, lo proteggeva con slancio
commovente. Ah, povero lui se avesse saputo quale meschinità nascondeva il suo
animo! Certo, Alfredo non poteva sapere che ogni notte, e qualche volta
addirittura di giorno ultimamente, Diego si toccava pensando a Michele che lo
abbracciava da dietro, che gli toccava l’uccello attraverso le mutande, che lo
minacciava di metterglielo nel culo... minacciava?
Non c’era cosa al mondo che desiderasse di più! Dio mio... alla sola idea sbavava. Non erano fantasie malate, era
la realtà, la sua dura realtà. Diego conosceva bene l’argomento, sapeva quanto
l’atto potesse essere gratificante per quelli come lui, sodomiti... C’era stato
già un uomo nella sua vita, pochi anni prima, un quarantenne di nazionalità
francese con il quale aveva intrapreso una relazione segreta, come solo segreta
poteva essere una relazione tra uomini. Alberghetti modesti, frasi di
circostanza, poi la prima volta, dolorosissima, quasi uno stupro. Quasi. Aveva
solo diciotto anni all’epoca e non sapeva che sarebbe entrato nell’arma, in caso contrario non avrei mai permesso a
Jean Pierre di prendermi in quel modo, mentì a se stesso. Beh, la relazione
durò quasi due anni, almeno fino al trasferimento a Milano. Non si erano mai
detti niente, nemmeno durante il sesso avevano mai parlato della cosa. Si erano
riconosciuti come accade a quelli fatti così, una specie di sesto senso, un
istinto primitivo, animale. E Diego lo aveva seguito alla ricerca di qualcosa,
o di se stesso. Ma Michele? Come ha fatto
a capire? Non dovevo perquisirlo, non dovevo... ancora sconvolto si
accasciò al letto con le mani tra i capelli; strizzò le palpebre. Per settimane
si era masturbato pensando al cazzo del bel pugliese, e ora aveva a
disposizione materiale di prima qualità. Michele lo aveva aggredito,
palpeggiato, gli aveva promesso il piacere e la lussuria più sfrenata.
Sconsolato rammentò a se stesso quale era la ‘vera’ verità: Michele era un animale,
come gli ricordava tutti i giorni Alfredo. Si era preso gioco di lui perché
aveva fatto lo sbaglio di guardargli troppo il pisello. E aveva capito. Dopotutto, gli uomini del sud sono svegli,
non dormono in piedi come noi che abbiamo la nebbia trapiantata nel cervello.
Ostilità. Ormai Diego era ostile con se stesso e anche se continuava a fare le
stesse cose: denuncie, controlli, appostamenti, si sentiva in un baratro.
Faceva tutto per inerzia. Se avesse avuto coraggio si sarebbe tolto la vita e
basta. Perché è l’unica cosa che possono
fare quelli che iddio ha dato questa scalogna, si disse più e più volte. Ma
la pistola la guardò e basta, a lungo, in preda al panico e alla dissociazione
mentale. Accarezzò il grilletto, immaginò i pezzi di cervello sparsi per la
stanza, attaccati al muro come un Gauguin. Il bussare insistente alla porta lo fece
tornare in sé. Un suo collega lo avvisava che c’era Ferrero là sotto ad
aspettarlo. Sospirando Diego raccattò le sue ultime cose e stancamente
acchiappò la valigia con la sinistra e infilò nel braccio destro il borsone
della piscina con lo stemma dell’arma.
Appena lo vide da basso, Alfredo gli prese la valigia che aveva l’aria di
pesare parecchio e la infilò nel portabagagli della sua utilitaria. “Pronto
Diè?” chiese, un sorrisetto tirato. Diego ne sapeva il motivo. Abituati a stare
tante ore insieme, ora li aspettava un’intera settimana divisi da 1000
kilometri. Senza dirsi tante cose, se non frasi banali legate al mestiere,
arrivarono alla stazione di Bisceglie. All’idea dei treni che doveva cambiare
Diego ebbe un giramento di testa. Alfredo si rese conto che era già stanco. “Mi
ci vorrà un giorno per arrivare, ancora mi ricordo l’andata”
“Fatti coraggio, prima o poi arrivi” poi tirò fuori
dal tascapane un libro. “So che ti piace leggere, l’ho comprato ieri” glielo
porse. Sorpreso Diego si ritrovò in mano una copia di Berlinguer e il professore “Questo romanzo vi racconta come avverrà
il compromesso storico” Diego lesse ad alta voce emozionato. “Sono le cose di cui
parliamo sempre no? So che io e te abbiamo idee politiche diverse ma ognuno
rispetta quelle dell’altro no? Poi magari me lo presti e divento comunista
anch’io”
“Ah, sarebbe un miracolo, ma non si sa mai” Diego
lo abbracciò e anche Alfredo rispose all’abbraccio. Qualche secondo dopo si
staccarono e Alfredo, dopo averlo aiutato a portare le valige dentro il suo
treno, lo salutò con due baci per guancia e poi se ne andò, fiero nella sua
divisa nera, come un gatto che ha fregato il topolino nella dispensa.
Quella mattina Michele
si sentiva come un leone in gabbia. C’era la manifestazione a Molfetta e lui
costretto a starsene lontano dai suoi amici, dai compagni, solo a Bisceglie a
contare quanti scarafaggi passavano sopra la mensola della cucina. Per colpa
della sua stupidità, tra l’altro, e questo lo faceva stare peggio. Se ne stava
seduto sul divano in cucina, nella semioscurità: non aveva aperto le imposte,
non voleva vedere il sole, lo infastidiva tutto quella mattina.
E tutto per colpa di un
piccolo, bastardo torinese che non si sa in nome di quale dio era venuto a
ficcarsi nelle Puglie per fare il Carabiniere. Frocio e Carabiniere. Lui è frocio, e tu Michè? Cosa sei tu?
Ci aveva pensato talmente a lungo che ormai ne era sicuro: il torinese gli
piaceva, e gli piaceva pure tanto, decisamente troppo. Non era più un gioco,
non c’era niente da ridere. Forse avrebbe dovuto andarsene per un po’ dal
paese, cambiare aria, cambiare gente. Ma come faceva a lasciare suo padre,
proprio adesso che si stava lentamente riprendendo? E col lavoro? Non poteva di
sicuro licenziarsi, anzi, doveva tenerselo ben stretto quel fottuto posto in
fabbrica.
“Michele, che fai? Stai
al buio? Hai già fatto colazione?”. Michele trasalì, non si era accorto che suo
padre era entrato nella stanza.
“No pà, non ho molta
fame, ho un po’ di mal di testa, per quello che sto al buio”.
“Dovresti stare un po’
di più all’aria aperta. Quando non sei in fabbrica, ti rinchiudi in quella
radio, non è sano Michè. Vai a fare un giro, scendi al mare, c’è già caldo, si
sta bene” il padre intanto si avvicinò al fornello per preparare il caffè.
“Senti da che pulpito!
Sei rimasto rinchiuso per anni in questa cucina e adesso fai la predica a me?”
Michele rispose rabbiosamente a suo padre, pentendosene immediatamente. “Scusa
papà, non volevo, è il mal di testa”. Si alzò e andò vicino a lui mettendogli
un braccio sulle spalle.
“Hai ragione Michele, ho
passato anni seduto a quel tavolo, ma adesso sto meglio, e riesco a vedere cose
che prima non notavo. E so che stai male Michè: in questi ultimi giorni
soprattutto ti vedo proprio che soffri, e non mi piace, vorrei poterti aiutare.
Vuoi dirmi che succede?”.
Michele rimase lì
pensoso. Se sapessi cosa succede al tuo
figliolo, ti prenderebbe un colpo pà. Meglio che tu rimanga nell’ignoranza. “Ma
no pà, non è niente, sono solo un po’ stanco, i turni sono pesanti, e poi la
primavera lo sai che mi ha sempre un po’ debilitato, tutto qui, non ci
pensare”.
“È vero, sei sempre
stato fiacchino in questa stagione, fin da bambino; la mamma ti faceva l’uovo
sbattuto, ti ricordi? Forse dovresti fartelo a colazione Michè. Anzi, bisogna
comperarli che non ce n’è quasi più. Se tu avessi voglia di andare, potresti
anche comprarmi le sigarette? Così io sistemo un po’ la casa. Più tardi viene
Peppino, vuole parlarmi di un progetto di lavoro. Speriamo”.
“Va bene, vado a fare
spesa. Così mi farò le uova sbattute” ride Michele dando un buffetto al padre.
So
io chi mi sbatterei. Ma porca… “Vado, ci vediamo a
mezzogiorno, va bene?”.
Michele infilò le scale
e si buttò in macchina, diretto verso la campagna. Fatta la solita spesa, scese
in paese e parcheggiò la macchina in piazza per andare dal tabaccaio. Non si
accorse nemmeno che aveva preso la via più lunga, quella che passava sotto la
caserma dei Carabinieri.
Quando vi si ritrovò
sotto, bestemmiò a mezza voce. Sei
proprio uno stronzo Michele, che ci fai qua? Si rimise in cammino a testa
bassa, stanco, soprattutto stanco di pensare. Se si potesse chiudere il cervello momentaneamente…
“Salvemini!”
all’improvviso si sentì chiamare: conosceva quella voce, era quella del
Maresciallo Camporeale. Si bloccò e venne raggiunto da due carabinieri:
Camporeale appunto, e Ferrero.
“Che ci fai qui? Non
dovresti essere a Molfetta con gli altri delinquenti amici tuoi?” ghignò il
maresciallo.
A Michele scappò da
ridere: non vedeva l’ora di raccontarla al Paz! Tieni un profilo basso… sticazzi Pazienza! Mi han beccato dal
tabaccaio! Ma a quanto pareva, Diego non doveva aver parlato, altrimenti
Camporeale non sarebbe stato così gioviale. “Ho degli impegni oggi, non potevo
proprio andare Marescià. Vi saluto”. Ed entrò nel negozio. Subito dopo di lui
entrò Ferrero. Michele gli diede un’occhiata di sfuggita e si sentì drizzare i
capelli nella nuca: Ferrero sapeva, eccome se sapeva! Il suo sguardo diceva
tutto. E come poteva essere diversamente?
Sempre in giro a braccetto, sempre in coppia quei due, gli’ha spiattellato
tutto quel frocio maledetto! Prese le sigarette per il padre e per sé e
uscì, tallonato dal carabiniere, che appena fuori gli si fece addosso
puntandogli gli occhi negli occhi. “Allora Salvemini dimmi: ti sei divertito in
piscina l’altro giorno? Che gli hai fatto al collega? Non ti ci facevo così
stupido Salvemini!”.
Michele sudò freddo ma
tirò fuori subito la verve migliore: “Dai mollami appuntato. Ma che gli avrò
mai fatto che un carabiniere non si può difendere? Per due battute, andiamo”
Michele cercò di svicolare, ma dentro era spaventato adesso, si rendeva conto
che quelli potevano imbastirgli una bella storia addosso e sbatterlo in galera,
buttando poi la chiave.
Alfredo lo spinse sotto
al portone buio accanto alla tabaccheria, lo inchiodò al muro puntandogli
l’arma allo stomaco: “Prenditela coi tuoi pari, bastardo, perché non ci provi
con me? No? Hai paura? Guarda, la metto via la pistola, non ne ho bisogno.
Allora? Non parli più? Fottutissima testa di cazzo” sputò in terra. Un espressione
sprezzante gli induriva i lineamenti altrimenti da bonaccione. “Non ci provare più hai capito? Perché la
prossima volta è con me che farai i conti, e non sarà un momento piacevole per
te. Chiaro?”.
Michele annuì senza
parlare, guardandolo fisso negli occhi, cosa che non piacque al carabiniere che
si sentì preso in giro dall’operaio e repentinamente gli tirò due pugni: uno in
pieno viso, facendogli anche sbattere la testa contro al muro, e l’altro a
seguire nello stomaco.
Michele vide un gran
fuoco d’artificio e si piegò su sé stesso, mentre Alfredo se ne andava
tranquillamente.
“Cazzo, cazzo che male,
cazzo!”. Toccandosi delicatamente la bocca e il naso, ritrasse la mano sporca
di sangue. Lo stomaco gli faceva un male cane e la nuca non poteva nemmeno
sfiorarla. Curvo, uscì dal portone e, coprendosi il viso col fazzoletto, andò
più velocemente che poteva verso la macchina. Quel carabiniere aveva delle
mazze, non delle mani, pensò. Sotto casa salì rapidamente le scale e pregò che
il padre non fosse in cucina, non voleva farsi vedere così e soprattutto non
gli andava di inventare storie con lui. Fu fortunato. Mise le sigarette sul
tavolo e silenziosamente ridiscese le scale, recandosi alla radio ad aspettare
gli amici. Ora voleva solo parlare con Andrea. Si coricò sul divano d’angolo e
si predispose all’attesa.
Un paio d’ore dopo sentì
un rumore di portiere sbattute e poco dopo i compagni entrarono chiacchierando
fittamente, allegramente, depositando i cartelli all’entrata. Non lo videro
subito rannicchiato nell’angolo e lui non diede nessun segno di vita. Voleva
solo parlare con Andrea, non aveva voglia di spiegare niente a nessun’altro.
Fu Anita ad accorgersi
di lui e correndogli incontro si avvide del volto pallido e tumefatto
dell’amico: “Michè! Che ti hanno fatto? Madonna che botta: bisogna
disinfettare, hai un brutto taglio sul labbro. Prendo la roba”.
“Lascia stare Anita, tanto
ormai non cambia niente. Mi chiami il Pazienza? Per favore, Anì, ho bisogno di
parlargli”. Michele si riappoggiò al bracciolo, sfinito.
Di corsa, Anita uscì nel
cortile e poco dopo Pazienza raggiunse l’amico sul divano. “Cazzo hai fatto? Ti
sei menato? Ti avevo detto di stare tranquillo Michele, allora tanto valeva che
tu venissi a Molfetta…” lo sguardo torvo di Michele gli smorzò le parole.
“Era meglio sì se venivo
a Molfetta. Vuoi sapere da chi le ho prese? Dall’appuntato, quello che sta
sempre con Camporeale, Ferrero mi sembra si chiami. Mi ha beccato in
tabaccheria, mi ha trascinato nel portone e mi ha anche puntato la pistola alla
pancia!”.
Pazienza impallidì:
“Cazzo dici Michè: ti ha puntato la pistola? Ma lo denunciamo, ma gli facciamo
passare la voglia, ma…”.
“Ma un cazzo Paz. Quando
l’ha messa via, non ho fatto in tempo a respirare di sollievo che con un pugno
mi ha spaccato la faccia e l’altro me lo ha ficcato nello stomaco. Per non
parlare del bernoccolo alla nuca. Mi ha detto di lasciare stare il piccolino
che me la devo prendere con lui. Gli basterà questo? Gli basterà?” Più pensava
a quanto successo più si sentiva sconvolto. Proprio lui che cercava sempre di
tenersi abbastanza lontano da certi guai scomodi, si era messo nei casini per
colpa di un bel culo, di un carabiniere
per di più! Ansimando continuò: “Dimmelo Andrea, io non lo so. Io so che ho
paura adesso. Lo so che non dovevo fare lo stronzo, ma questo mi ammazza. Mi sa
che vuole farselo lui Diego”. Michele era ancora più pallido mentre raccontava
tutto all’amico, che più pallido di lui non sapeva cosa rispondere. Nel
frattempo arrivò Anita, la quale, impermeabile alle proteste di Michele,
cominciò a disinfettargli il viso, mettendogli poi un unguento puzzolente, ma
che a sentire lei faceva miracoli, quindi gli allungò un’aspirina.
“Non andrai più in giro
da solo Michele, questo è sicuro. Mai a piedi, solo in macchina, e sempre in
compagnia, almeno per un po’ di tempo, poi vedremo come evolve la situazione.
Capito?”.
“Capito” a Michele
vennero le lacrime agli occhi. Adesso era davvero saturo. Non gli bastava
l’attrazione per il bel torinese, che era già un peso gravoso da portare per
uno come lui, ora aveva anche paura di essere pestato, o magari ucciso per
averlo molestato. E avevano anche ragione, ammise a se stesso, l’appuntato
aveva ragione ad avercela con lui, ma la storia della lealtà fraterna non se la
beveva, più passavano i minuti più era sicuro che Ferrero fosse geloso e lo
avesse minacciato per tenerlo a distanza da Diego, proprio perché aveva intuito
che Diego ricambiava la sua attrazione. Altrimenti
non sarebbe venuto in quel modo se non gli fossi piaciuto, e che cazzo! Ma il
resto non conta.. ricordò a se stesso che si era comportato come un bruto,
come un fascista, e ora ne pagava le conseguenze.
L’ultimo pensiero lo
formulò ad alta voce, senza accorgersene, e gli amici annuirono: “Si Michè, sei
stato un coglione, ma a volte il cervello non ci ragiona. Tranquillo però che
si risolve. Ora mettiti tranquillo e riposati, quando vuoi andare a casa ti
porto io con la tua auto; Anita ci segue con la mia così poi torno con lei.
Tranquillo Michè, tranquillo”.
Anita si sedette sul
divano e lo fece coricare con la testa appoggiata alle sue gambe; gli accarezzò
i capelli finché Michele si assopì. Anita e Andrea rimasero a guardarsi,
profondamente preoccupati.
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Secondo me non bastano i chilometri tra Torino e Bisceglie per smorzare il desiderio che Diego ha di Michele. Bisogna solo vedere come farà il nostro reazionario ad avvicinarsi al bel carabiniere ora che Alfredo sta come un cane da guardia pronto ad azzannare. Che abbia ragione Michele? Sia gelosia quella che prova Alfredo per il collega? Speriamo proprio di no, ma anche se fosse come potrebbe competere con la bellezza animale di Michele?
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