giovedì 11 ottobre 2012

Diventare grandi Sesto capitolo



Titolo: Diventare grandi


Pairing: Diego - Michele

Rating: NC 17

I personaggi mi appartengono. Ho preso solo in prestito i nomi. Questa fic non è scritta a scopo di lucro ma solo per divertimento

*****





Tre giorni dopo

Diego è seduto sul letto, schiena poggiata contro la testiera, sguardo perso nel vuoto e braccia appoggiate sulle ginocchia piegate. La reclusione in casa lo ha portato ad uno stato di profonda depressione. Da tre giorni non parla con nessuno, si rifiuta di mangiare e non avendo neanche la scuola come scusa per evadere, essendo stata occupata, trascorre le sue giornate chiuso in camera. Dalla notte dell’irruzione della polizia non ha più notizie né di Michele, né degli altri manifestanti. E poi, come potrebbe averne. Suo padre lo ha segregato in casa tanto che neanche gli amici possono andare a trovarlo. Diego spera solo che i poliziotti non siano stati tanto duri con lui. Da quella notte ha un incubo ricorrente: Michele picchiato selvaggiamente e trascinato via. L’immagine dei compagni è stampata a fuoco nella mente. In quel momento sente bussare. Come sempre rimane immobile, senza muovere neanche un muscolo. E anche quando entra sua madre, Diego resta nella medesima posizione.
“La cena. Questa volta cerca di mangiare, tesoro” resta qualche secondo nella stanza, gli occhi stanchi fissi sul figlio. “Diego, perché non vuoi parlare? Scommetto che tra qualche giorno tuo padre avrà già dimenticato tutto”
Stringendo i pugni Diego si limita a fissare il vuoto.
“Perché non gli parli? Vedrai che perdonerà questa tua bravata”
Non ottenendo alcuna risposta, la donna appoggiato il vassoio sulla scrivania si volta per uscire: “Se non mangi tuo padre ti farà ricoverare, è questo che vuoi? Fallo per me, ti prego” e sparisce nel corridoio chiudendosi la porta alle spalle.
“Fottetevi tutti” mormora con un filo di voce. Vorrebbe addormentarsi per non svegliarsi più. Avere il coraggio di imbottirsi di sonniferi, ma il pensiero di Michele lo costringe a non soccombere all’apatia che lo sta trascinando verso un gorgo dal quale non riesce a risalire.
“Se solo…” mormora Diego, poi una folgorazione. Ridacchiando maligno scatta giù dal letto e comincia a rovistare nell’armadio. Lancia gli abiti fuori, scatole vecchie, giornali e tutto quello che gli capita a tiro fino a quando non trova quello che sta cercando: un sacchettino grigio nascosto in una scatola di scarpe. Ne versa il contenuto sul palmo della mano, due pasticche che neanche ricordava di avere. Senza pensarci le ingoia e attende che lo portino nel paese dei balocchi.
Chiudendo gli occhi lascia che la beatitudine si propaghi prendendo possesso del suo corpo. Sentendosi leggero, alza le braccia e sorride. Finalmente dopo giorni si sente bene. La finestra chiusa lo attira, all’esterno le luci dei lampioni lo abbagliano. I sensi più sviluppati gli permettono di percepire ogni odore, rumore. Anche i clacson gli procurano fastidio, ma come attratto da una forza invisibile si ritrova sul piccolo balcone.
Ispira l’aria fredda della sera, poi si sporge pericolosamente. Il cortile non gli è mai sembrato così vicino, raggiungibile. Si dice che solo pochi centimetri lo separano dalla libertà, da Michele e da tutto quello che lo aspetta lontano da quella casa, dai suoi genitori e dalle regole che non hanno mai aiutato nessuno. Sa che prima dell’indomani mattina nessuno si accorgerà della sua fuga. Scavalca la ringhiera e quando anche l’altra gamba è dall’altra parte, si prepara a saltare. La droga gli dà una percezione sbagliata della distanza, rendendolo sconsiderato e audace. Preso lo slancio, salta, ma l’impatto con il suolo non è delicato come pensa e cadendo sul mattonato si storce la caviglia. Complice la felicità di essere di nuovo libero, ma soprattutto gli effetti antidolorifici della pasticca appena presa, Diego sembra non avvertire alcun dolore. Senza neanche alzare lo sguardo verso la sua prigione, si allontana.
Raggiunta la Vespa ricorda di non aver preso le chiavi. Imprecando sferra un calcio al mezzo, poi, rassegnato, si incammina. La droga prende completamente il controllo e Diego, noncurante del dolore, saltella felice, come una farfalla. Agita le braccia e esegue delle piroette. A parte qualche ritardatario e un paio di lucciole in cerca di clienti, la strada è pressoché deserta. Una delle prostitute, una rossa con un trucco vistoso e un abito che lascia scoperte le natiche, lo chiama: “Ehi piccolo, vuoi un assaggio? Sei proprio carino, sai?”
“Sono una farfalla!” urla il ragazzo saltellando sul marciapiede.
La donna scoppia a ridere: “Una farfalla? A me sembri di più una zanzara. Dai, vieni. Ti facciamo diventare un ometto”
“Due al prezzo di una, tesoro” interviene l’altra, una bionda appariscente.
Diego, preso dal suo volteggiare neanche ci fa caso. Si limita a sorpassarle diretto verso una meta sconosciuta.


La stazione di polizia attira Diego come una falena con un lampione. Si ferma per un istante davanti all’ingresso. La testa gli gira, le gambe gli tremano e il cuore batte come un tamburo nel petto. Non mangia da tre giorni e l’astinenza comincia a farsi sentire. Soltanto la voglia di rivedere Michele lo mantiene in piedi. Tentando di scacciare il timore che ha della polizia, varca il portone. Il caldo dei riscaldamenti lo avvolge come un maglione di lana. Indosso Diego ha solo una maglia leggera e un paio di pantaloni di velluto. Nella stanza un solo poliziotto, seduto dietro il vetro. Sentendo il rumore dei passi, questi alza lo sguardo. È sulla cinquantina, spessi occhiali e capelli brizzolati. Davanti a lui una pila di carte. “Ti serve qualcosa?”
“Vorrei vedere un detenuto!” le mani a tormentare il bordo della maglia e un sorrisetto nervoso.
L’agente lo squadra stranito. Gli occhi rossi, il viso emaciato, l’aspetto disordinato fanno sembrare Diego un drogato in crisi d’astinenza.
“Chi sarebbe?” abbassa per un istante la testa sui fogli.
“Michele Salvemini” nonostante glielo avesse accennato solo una volta, Diego ricorda anche il cognome.
“Sei un parente?” il poliziotto torna a guardarlo.
“Sì!” mente, ma la voglia di vederlo lo rende sfacciato.
“Davvero?” il poliziotto incrocia le braccia al petto. “E chi saresti? Il suo fratellino?”
“Ehm, sì!” Diego trema leggermente. Dopo quello che gli è successo all’Università quella situazione gli sembra tutt’altro che piacevole.
“Senti, chi credi di prendere in giro?” esce dal gabbiotto e lo raggiunge.
Spaventato il ragazzo indietreggia, poi si guarda intorno alla ricerca di una fuga. “Io no” mormora.
“Se fossi suo fratello sapresti che l’hanno trasferito a Milano” incalza l’uomo.
“Cosa?” Diego si lascia travolgere dallo sconforto. “A Milano?”
“Ma a quest’ora l’avranno già scarcerato, sempre se non aveva precedenti” l’agente lo fissa stranito. Vedendolo tremare allunga una mano, ma Diego si scansa. “Speravo fosse ancora qui!” con le lacrime agli occhi si lascia cadere su una panca.
“È tuo amico?”
Diego annuisce: “Michele mi ha salvato da me stesso ed ora…” si prende la testa tra le mani.
“Su, ora torna a casa. I tuoi saranno in pensiero” gli appoggia una mano sulla spalla, ma sentendolo irrigidirsi, la ritira immediatamente. “Come ti chiami ragazzino? Io sono il tenente Capoccia”
“D-Davide” si inventa prudente.
“Hai fame, Davide? Lo vuoi un bel panino?”
“N-no” ma in quel momento lo stomaco brontola tradendolo.
“Su, offre l’arma” abbozza un sorriso e tornato alla sua postazione afferra un panino che Diego ipotizza fosse la sua cena.
“Lei è gentile, ma…” tenta di rifiutare, ma il profumo del salame gli fa venire l’acquolina in bocca.
“Non discutere mai con un poliziotto con una pistola nella fondina!”
A quelle parole, Diego impallidisce. Preso il panino scatta in piedi: “Devo tornare a casa”
L’agente lo blocca. “Aspetta! Hai forse preso qualcosa?” ha troppi anni di carriera alle spalle per non accorgersi del suo stato alterato. 
“Mi lasci” la voce diventa stridula, negli occhi il terrore puro. Strattona il braccio per liberarlo.
“Sì, ti lascio, ma voglio sapere che hai preso. Non stai bene!” comincia a temere che possa sentirsi male. L’ultima cosa che vuole è un ragazzino drogato sulla coscienza.
“Non mi fido di lei!” Diego urla quasi “Voi poliziotti siete tutti dei bastardi! Vede questo?” mostra il livido verde, non ancora sparito, sulla guancia. “Un regalino di un suo collega. I miei amici sono stati picchiati senza un motivo e ora vuole che io rimanga qui?” scuote la testa, il corpo scosso da un leggero tremito. “Devo andarmene via!”
“Eri anche tu tra quegli invasati!”
“Non erano invasati!” replica furioso. Difende i suoi compagni. Detesta che passino come dei delinquenti quando gli unici degni di essere biasimati sono gli agenti che hanno fatto irruzione. “Cercavano solo di cambiare le cose in questa società di merda” e dopo avergli lanciato uno sguardo colmo di rancore, scappa via.


Una volta che si è allontanato abbastanza dalla stazione di polizia, Diego può fermarsi a riprendere fiato. Il viso è rosso e i capelli tutti scompigliati. Appoggia la schiena ad un lampione, in mano stringe ancora il panino che gli ha dato l’agente. Fa per buttarlo nel cassonetto lì vicino, poi ci ripensa, ha troppa fame per rifiutare del cibo gratis. Dopo averlo scartato, lo addenta vorace. Il sapore del salame è come una festa per le sue papille. Diego neanche ricorda da quando non mangia qualcosa di così delizioso. Mugugna felice, ma dopo pochi bocconi viene colto da dolori lancinanti.
“Merda” il digiuno è durato troppo e il suo stomaco si ribella a quel cibo improvviso.
Diego si piega in due tentando di non soccombere, il viso contorto in una smorfia. Ansima e tossisce tanto che dopo qualche istante il contenuto dello stomaco è tutto sull’asfalto. Continuano i conati fino a quando, stremato, si lascia scivolare per terra. Ora che ha di nuovo la pancia vuota e che l’effetto della droga è completamente svanito, Diego si sente perso. L’unico che può aiutarlo è Dado, il suo migliore amico, fin da quando sono bambini. Ma come può andare da lui in quello stato? Teme che i genitori possano chiamare suo padre. Al solo pensiero di tornare in quell’inferno di casa, il corpo ha un fremito, non ha nessun altro. Pensa che forse può nasconderlo senza che nessuno sappia della sua presenza. Calciando un sassolino s’incammina verso il palazzo dell’amico, ma nel voltare l’angolo si ritrova davanti l’edificio che ospita la facoltà di Architettura. Il cuore comincia a galoppare e tutto quello che è accaduto tra quelle mura torna violentemente a farsi strada nella sua mente. Stringendo tra le dita le grate del cancello, sbircia all’interno. Sulla facciata i graffiti inneggianti alla rivolta e lo striscione con su scritto “Facoltà occupata” poggia ancora sul portone d’ingresso. Nel vedere quel posto così abbandonato sgrana gli occhi. Si chiede come mai dopo l’irruzione non sia tornato tutto come prima. Incuriosito fa il giro dell’edificio, il cortile deserto e buio gli mette ansia, ma come attratto da una forza invisibile, cerca il modo d’entrare. Tastando l’edera che cresce sul cancello posteriore, trova finalmente il punto dal quale è passato sere prima.
Una volta all’interno viene investito da una moltitudine di emozioni contrastanti: paura che ci possa essere qualche guardiano o poliziotto; speranza che Michele possa essere tornato tra quelle mura, ma soprattutto tristezza nel ricordare gli eventi che hanno cambiato la sua vita di adolescente. Da quella notte è stato così preso a dimenticare e soprattutto a pensare a cosa possa essere accaduto a Michele da non riflettere sull’importanza degli avvenimenti che si sono succeduti in una sola notte. Varca l’atrio e gli sembra non sia trascorso neanche un giorno. È tutto come allora. Niente è stato spostato, come se nessuno vi fosse più entrato. Da un angolo afferra un paio di coperte e se le trascina su per le scale. Il respiro è affannoso, tutto lo riporta a quella notte. Nella mente rimbombano le urla disperate, il rumore dei manganelli sui corpi indifesi. Sulla ringhiera schizzi di sangue e così anche sulle pareti del corridoio al piano superiore.
Raggiunta l’aula nella quale si è rifugiato con Michele si ferma, scosso da un leggero tremito. Avanza lento nella stanza e per la prima volta riflette su quello che ha condiviso con Michele: un bacio. Non si è trattato di un semplice bacio tra amici,  ma come quello tra due innamorati Un bacio colmo di passione, desiderio e ardore. Sfiorandosi le labbra, Diego ne percepisce ancora il calore. Non riesce ancora a credere che quel giovane grande e grosso, con il barbone, ma gli occhi da cucciolo bisognoso di coccole potesse ricambiare i suoi sentimenti. Si chiede se fosse qualcosa dettato dal momento o se attendeva solo il momento giusto per dimostrargli quello che provava.  
Sospirando si accuccia in un angolo, una coperta appallottolata a fargli da cuscino ed un’altra a proteggerlo dal freddo della notte.

3 commenti:

  1. Aw, che tenerezza Diego in questo capitolo! E' smarrito e solo.
    Non vedo l'ora che possa ritrovare il suo Michele. Il suo posto è al suo fianco! <3

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  2. Sì è molto smarrito e forse tarderà a ritrovarsi. Bella la foto, ma come capitolo è piuttosto interlocutorio e troppo dilungato in dettagli inutili, come la scena alla stazione di polizia che sembra non finire mai. A parte la mancanza di scorrevolezza, mi aspettavo un approfondimento sulle dinamiche psicologiche di questa prima volta omosex tra un uomo e un adolescente, soprattutto data l'epoca. Attendo sviluppi e un finale approfondito :)

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  3. Vero, Diego fa molta tenerezza. Per me il capitolo va bene così, fa capire lo stato d'animo di un ragazzo poco più che adolescente, alle prese con troppi segnali, con cose troppo più grandi di lui. Piano piano arriverà ad approfondire i suoi pensieri, i sentimenti, tutto quello che prova e che per ora lo fa solo sentire confuso.
    Il solo particolare che non convince è il poliziotto: mai trovati poliziotti così in vita mia! Se ti mettono una mano sulla spalla, è solo per perquisirti! :o)

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