giovedì 18 ottobre 2012

Il cassetto dei sorrisi, capitolo 6







Titolo: Il cassetto dei sorrisi  
Pairing: Diego Perrone/Michele Salvemini
Genere: Romantico/Introspettivo  
Rating: NC 17
Disclaimer: I personaggi mi appartengono, ho solo preso in prestito dei nomi e questa opera non ha scopo di lucro. Il titolo prende spunto da Rainy Baby, di Diego Perrone


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Capitolo 6


Arrivai al punto da non sopportare più la felicità di Diego e la mia, la perfezione apparente della nostra vita coniugale, con le sue piccole, meschine gioie quotidiane: dal gatto che avevamo preso, Piero lo chiamammo, per via di De Andrè, che saltava sul letto per svegliarci, dopo aver dormito ai nostri piedi. Diego che cucinava quando aveva tempo, preparando dolci, tipo crostate di ciliege o cheesecake o i muffin, che io adoravo. Gli amici che ci eravamo fatti, tra cui una coppia di immigrati italiani, Simone e Gemma, entrambi ricercatori, anche se avevano poco l’aria dei topi da laboratorio, soprattutto Simone con il piercing al naso che entrava da una narice e sbucava dall’altra, ridevano del fatto che io non lavorassi e che ci facessimo bastare duemila euro al mese, contenti di non aver mai niente da mettere da parte.
Nella noia delle ore solo in casa iniziai  a scrivere. A mano, niente computer. Appuntavo pensieri, frasi, addirittura strofe ma soprattutto i ricordi che mi sovvenivano del periodo felice ai Navigli. Poi uscivo e mi mettevo a guardare le persone che passavano, come un pazzo, o un mendicante.
Fu così che la trovai, come si trova un randagio per strada. Si chiamava Gabi, sedici anni, scappata di casa da Essen. La notai perché cercava di accattonare qualche soldo di fronte all’entrata di una galleria che fungeva da centro commerciale. Aveva un caschetto di capelli corti e biondi che cadeva davanti agli occhi, una camicetta logora e i pantaloni troppo larghi, che non sembravano i suoi. Era così magra che pensai fosse anoressica. Poi l’avvicinai per chiederle se voleva pranzare con me e scoprii che non consumava un pasto decente da settimane. Entrammo in una tavola calda e riempimmo il cabaret. Siccome non parlavo tedesco e lei non parlava Inglese, il dialogo si ridusse a quel poco di Italiano che aveva appreso nelle estati passate al lago di Garda. Era affascinata da me e non ci misi molto a capire che aveva una cotta. Ma, nonostante questo, ripeto, la portai a casa come si porta un cagnolino abbandonato.
Gabi uscì dalla doccia coperta dal mio accappatoio che le stava enorme. Strinse le palpebre e poi si venne a sedere vicino a Diego che si preparava un cannone. “Quanto tempo manchi da casa?” le chiese in perfetto tedesco. Poi iniziarono a parlare fitto e non capii più nulla. Escluso dal dialogo mi rifugiai in camera a leggere un libro. La ragazzina dormì nella cameretta degli ospiti, poco usata in quei mesi, tranne per una visita lampo della mamma di Diego.
Diego e io, prima di coricarci, parlammo della situazione. Mi espresse le sue perplessità, ospitare una minorenne scappata da casa, non gli sembrava una buona idea e poi nessuno di noi due aveva proprio la propensione alla carità cristiana. “Ti piace vero? Ti eccita?” chiuse con una vocina più stanca che gelosa. Bastò quello a far scattare in me la scintilla. Capii che aveva ragione lui, che mi piaceva. Mi piaceva la ragazzina, e non c’entrava niente il fatto che prima di conoscere Diego fossi soltanto etero, anche perché con quel corpo filiforme, quasi privo di seno, Gabi si poteva collocare tra le creature androgine, praticamente priva degli elementi tipici femminili che attraggono gli uomini. No, mi affascinava la situazione o forse proprio lei come persona. La sua giovane età, la sua storia difficile, con i genitori maneschi, le violenze domestiche perpetuate. O semplicemente la novità. In ogni modo, nonostante fosse geloso, la mattina dopo Diego ebbe l’accortezza di lasciarmi duecento euro sul comodino per comprare dei vestiti alla ragazza. Ovviamente si fermò da noi più di quanto fosse preventivato. Per ricambiare l’ospitalità, accettò di farci da colf così licenziammo la polacca e demmo quei soldi a lei.

Ora, nelle mie giornate bighellonanti avevo lei a farmi compagnia, così la portavo nei musei, nei parchi, al cinema. Siccome le ripetizioni di inglese che Diego le faceva la sera davano buoni frutti, riuscivamo a parlare oltre quelle poche nozioni d’italiano che aveva. Non volendo, Diego ed io ci eravamo fatti una specie di famiglia, con una specie di figlia. Ai vicini e agli amici la spacciavamo come una parente lontana di Diego venuta a studiare dalla Germania e, per far sembrare la cosa più vera, le comprai un trolley con dei libri e la mattina l’accompagnavo in quella ipotetica scuola, mano nella mano come un padre affettuoso o come un pedofilo accanito. Ovviamente mi sentivo attratto da lei e lei si sentiva attratta da me, ma ormai la piega affettuosa che aveva preso il nostro rapporto, ci impediva di andare oltre solletichi, rapidi bacini a fior di labbra, abbracci, cuscinate e lotte. Devo dire che in questo era abbastanza presente anche Diego. Gabi era la nostra bambina ma anche il nostro giocattolino. Questa sua infantilità però non le impedì di iniziare a sperimentare con i ragazzotti del quartiere, attratti da questo spirito libero, questa biondina che, appena iniziata l’estate, iniziò a girare con un vestitino senza spalline così corto che le lasciava scoperto il sedere. Ero geloso, più come un padre che come un papabile fidanzato e questo faceva ridere Diego che mi prendeva in giro per la mia possessività. Un giorno però la trovai a pomiciare con uno ragazzo rossiccio sui venti, che soleva passare le sere ad ubriacarsi nel bar di fronte il nostro caseggiato. Li beccai dentro il portone, lui addossato a lei e lei con una gamba nuda gli circondava i fianchi. Mi incazzai e lei rise per l’accaduto. Le gridai dietro che se avesse continuato a fare la puttanella in giro l’avrei spedita ai servizi sociali. Bisogna precisare che ad ogni bravata minacciavo di denunciarla ai servizi sociali, dopotutto era quello che sarebbe stato logico fare, visto che si trattava di una minorenne scappata di casa e senza documenti. Io e Diego rischiavamo il culo a tenerla così, senza contare che pure io ero in Olanda con una sorta di pseudo permesso di soggiorno studio, un impiccio fatto da Diego. In effetti era quello che mi chiedevo ogni giorno, e che mi continuai a chiedere anche dopo che iniziai a scoparmela. Almeno io avevo intenzioni lubriche nei confronti della fanciulla, invece Diego perché accettava che stesse con noi rischiando così la fedina penale? Il lavoro addirittura? Arrivai alla conclusione che fosse masochista, o volesse mettermi alla prova. O entrambe le ipotesi. Fatto è che poco tempo dopo l’episodio della pomiciata con il rosso nel portone, tra noi qualcosa cambiò. Adducendo una cefalea premestruale, una mattina di fine Luglio, Gabi si tappò nella sua stanza. Così uscii da solo a fare spesa, e quando tornai, era passato mezzogiorno, aprii la porta del bagno per riporre shampoo e docciaschiuma e la trovai immersa nella vasca.
“Scusa” feci dietrofront imbarazzato, non aveva chiuso la porta a chiave. Mai successo in quei mesi.
Mi disse di restare ma io imbarazzato ci provai a tornare sui miei passi ma non fui sufficientemente rapido e lei mi batté sul tempo. La ragazzina si alzò mostrandosi in tutta la sua grazia. In quei mesi era ingrassata abbastanza da aver messo su le fattezze femminili. A bocca schiusa, restai imbambolato di fronte ai graziosi seni, con le aureole piccole e i capezzoli appuntiti, il ventre appena pronunciato, i fianchi torniti, la peluria biondissima del pube.
“Tt-i porto un a-asciugamano” m’impappinai.
“Ora ho freddo” ridacchiò mentre le porgevo il telo, per poi passarlo sulla pelle come se fosse una bambina di cui occuparsi. La mia bambina. Gabi sospirò e io mi sentivo così inquieto che mentre la scortavo nella sua stanza, mi girava la testa.
Quella notte presi Diego selvaggiamente. Ancora scosso dai singhiozzi, mi domandò:
“Tutto ok?” ridacchiò. “Come mai tanta irruenza?”
“Da quando è un delitto amare il proprio ragazzo?”
“No amore, non lo è... ma mi domando: Gabi cosa penserà del casino che abbiamo fatto”
“Non è più una bambina, capirà”
“Ne sono sicuro” sorrise etereo. 
Eravamo ad un passo dal disastro.  

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