Titolo: Il cassetto dei sorrisi
Pairing: Diego Perrone/Michele Salvemini Genere: Romantico/Introspettivo
Rating: PG, slash, Disclaimer: I personaggi mi appartengono, ho solo preso in prestito dei nomi e questa opera non ha scopo di lucro. Il titolo prende spunto da Rainy Baby, di Diego Perrone
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Vivevo in una bolla e non me ne
rendevo conto. Tutto iniziò nel duemilatre, anzi, mi correggo, finì in
quell’anno, prima ero nella bolla, poi arrivò l’ago a romperla, a liberarmi
dalla prigione e, allo stesso tempo, incasinarmi la vita. Pur essendo nato e
cresciuto nella calda e florida terra di Puglia, da circa quattro anni, mi ero
abituato al grigiore di Milano, dove lavoravo come Graphic designer presso una
prestigiosa casa di moda che sfornava calzature per bambini. Un posto d’oro che
mi ero guadagnato dopo decine di colloqui. Era un ambiente moderno e modaiolo,
dove il mio look radical chic, con i capelli lunghi e ricci sparati in testa e
le camice a quadrettini grunge, gli occhiali da vista squadrati dalla spessa
monta nera, non erano solo ben visti ma addirittura considerati “cool”. Essendo
così fascinoso, non mi fu difficile impalare la figlia del capo, Elettra Odero,
una bambolina bassa ma con le curve al punto giusto. E questo mi rese di gran
lunga più facile la carriera. Ecco perché, dopo due anni fui promosso come
vicedirettore esecutivo. Il direttore esecutivo, il padre della mia lei, non
si presentava quasi mai.
Ero convinto innamorato di
Elettra e con lei dividevo un delizioso appartamentino vista San Siro. A quasi
ventotto anni ero certo di essere felice senza nemmeno aver mai sfiorato il
concetto di felicità. Lo stesso che chiedere ad una donna d’altri tempi se sa
cosa sia l’orgasmo senza averlo mai provato; può spiegartelo benissimo senza
sapere cosa sia. Ma, come detto pocanzi, vivevo in una bolla e non mi rendevo
conto di nulla. Le mie giornate erano scandite da una quotidianità quasi
allarmante, ma che non allarmava me, contento nella mia normalità che strizzava
l’occhio a Forrest Gump per la sua ingenuità, ma che invece mi poneva al centro
di un ricatto. Ero in un altro film, The Thurman Show. Mi svegliavo la mattina
alle sette meno venti. Per restare in forma, come voleva Elettra, mi facevo
trenta minuti nel modernissimo tapiroulant che ci aveva regalato suo padre.
Doccia, poi colazione. Insieme ci recavamo al lavoro. Venti minuti di macchina
per coprire tre chilometri. Solo in seguito realizzai che se invece di
camminare sul tappeto rotolante, avessi tenuto la Mercedes classe A nera super
accessoriata, nel garage, l’ambiente, oltre che il mio stress, ne avrebbe
giovato. Ma non era certo nelle corde di Elettra quel genere di fitness,
abituata a camminare su tacchi vertiginosi. Lei non cammina, sfila. Per lungo
tempo non mi aveva dato alcun fastidio ma poi... Torniamo alla mia giornata
tipo, mi aspettavano: le solite facce, le solite scartoffie, le solite
battute... per canalizzare la mia creatività mi gettavo a capofitto nel lavoro.
Il mio ufficio, un cubicolo di dodici metri quadri ma al undicesimo piano di un
palazzo pieno di uffici, mi inorgogliva, soffocandomi. Le piante d’interni lo
adornavano, così come tutti i vari oggetti hi-tech. In una scansia alle mie
spalle c’erano i peluche che Elettra era solita regalarmi. Li detestavo, ma non
lo sapevo. Siccome a parte certi periodi dell’anno topici, settimana della
moda, convention, fiere, il lavoro scarseggiava, dovevo inventarmi qualcosa,
così finivo per passare ore su internet, dove saltellavo di blog in blog, di
forum in forum, di sito in sito. Spesso cazzeggiavo, oppure studiavo. Ogni
tanto acquistavo volumi sul medioevo, così da passare meno ore al pc e più con
il naso tra le pagine fitte; in questa maniera attenuavo il senso di colpa. A
pranzo mi recavo con Elettra nella mensa aziendale e alle cinque potevamo uscire
per recarci al Muline rouge, un bar
di tendenza per l’aperitivo. Di nuovo le solite facce, le solite battute, le
solite puttane... Senza rendermene conto, mi sparavo quattro prosecchi, e se
non ci mangiavo sopra anche poco, ne uscivo così ubriaco che spesso gli amici
erano costretti a portarmi in auto a braccetto. Elettra guidava. Non cenavamo
mai a casa: sushi bar, cena dai suoceri oppure da amici. Facevamo l’amore due
volte alla settimana, il mercoledì e il venerdì sera, a meno che non fossi
davvero troppo sbronzo o se lei aveva il ciclo. E di notte, qualche volta, mi
svegliavo di soprassalto, uscivo dal mio letto alla japanese per fumarmi una
sigaretta o per prendermi l’aspirina. Qualche volta piangevo. Era il mio
segreto. Credetemi, ero davvero convinto che piangessi di gioia all’epoca. Io,
figlio di una maestra elementare e di un operaio, avevo avverato il sogno di
ogni ragazzo del sud, ero benestante nella Milano da bere, e non mi ero affatto
reso conto che la Milano da bere stava bevendo me.
Poi tutto cambiò.
Quelle cose che se poi non
assumono un significato diverso dopo, le dimentichi. Avete presente? Invece
tutto rimase indelebile per me. Mi annoiavo così tanto quel giovedì mattina di
un Aprile piovigginoso e stanco, che quando il telefono squillò, era la solita
operatrice di call center, fui quasi grato di parlarle. Flirtai un po’ con lei,
era pugliese come me mi disse, si chiamava Gianna. Alla fine accettai
l’appuntamento per il giorno seguente, un venerdì che avrebbe segnato la mia placida
esistenza. Quando infatti il giorno dopo il telefono interno squillò e la mia segretaria
mi annunciò un certo “Signor Perrone” per l’appuntamento delle dieci e trenta,
caddi dalle nuvole. Lo avevo rimosso. Ovviamente non avevo molto altro da fare,
oltre rispondere a qualche mail e mettermi in coda per scaricare l’ultimo
blockbuster. “Lo faccia entrare Simona” e mi spaparanzai sulla poltrona di
pelle in attesa. Simona, una donna di mezza età priva di fascino, mi sfoderò da
dietro la porta questo giovanotto con i capelli chiari dritti in testa. Il
visetto, carino ma non tanto da poter essere definito “indimenticabile bello”
era disseminato di piercing; la bocca atteggiata in un broncio, provò ad
allargarsi ad un sorriso imbarazzato. Era timido e quando io mi alzai per
offrirgli la nerboruta mano, lui arrossì. Poi prese coraggio: “Diego Perrone,
piacere” gli ricordai il mio nome. Non era molto alto e non era vestito da
rappresentante. Sotto un giacchetto di pelle che si tolse quasi subito, portava
una maglietta dalla grafica interessante e jeans neri. Mi colpirono i suoi
capelli e le sue mani. Aveva il vizio di far collimare parecchio questi due
apici. Si toccava così spesso i capelli che mi chiesi se fossi io a incutergli
tutto questo nervoso o non avesse davvero tanta dimestichezza riguardo l’Adsl
che mi stava proponendo. Solo alla fine capii che erano entrambe le cose. “Mi
scuserà, è il mio primo appuntamento” ammise alla fine intenerendomi. Aveva un
suo fascino, pensai. Un po’ da cucciolo, ma anche da bello e dannato, con i
tatuaggi da duro che spuntavano da sotto la maglietta a mezze maniche,
nonostante la stagione ancora rigida.
“No, è stato chiarissimo. Ne
parlerò a mio suocero, ma consideri che lui delega tutto a me” alla parola
suocero sbiancò un poco: “Lei è sposato?” mi chiese, come se fosse un delitto o
un oltraggio. “Perché? No, però è come se lo fossi. Mio suocero è il padrone
della baracca. In ogni modo se acchiappi questa azienda, fai un bel salto” gli
chiesi se voleva fumare e lui mi guardò con la gratitudine di una donna incinta
con la vescica piena a cui offrono un bagno!
“Ucciderei per una sigaretta...”
“Però usciamo in terrazzo, la mia
segretaria è abbastanza rompiscatole in materia. Soffre d’asma, cose così” ci
alzammo e Diego mi seguì trotterellando. Avevo un terrazzino tutto mio, grande
come la cabina di un ascensore. Impossibile non stare vicini. Le nostre braccia
si sfioravano. Era più basso di me e più minuto. Ci scoprimmo a non sapere cosa
dirci mentre guardavamo il panorama di tetti maestoso che si parava sotto i
nostri sguardi.
“Milano ha un suo fascino vista
da quassù” mi azzardai a dire.
“Io ci vivo solo da tre mesi”
restai un po’ interdetto. Non lo avevo capito dal dialetto.
“Di dove sei?” passai al tu e lui
sembrò rilassarsi un poco.
“Provincia di Torino. Stavo
cercando lavoro quando mi è arrivata un’offerta da un’azienda di qui che prende
neolaureati e, indovina un po’... " infilò le mani in tasca, lo sguardo divenne
rabbioso: <Hanno deciso di ridimensionarsi. Tagli al personale, così sono
stato il primo ad essere licenziato”.
“Cazzo che sfiga” mi sfuggirono
due parolacce in una frase sola e Diego ridacchiò sereno. Mi piacque il suo
sorriso, non mi dava l’impressione di uno che ridesse con facilità. Anzi ebbi subito
l’impressione, giustissima, che Diego non fosse uno che elargisce sorrisi con
facilità, tutt’altro. Erano rari e dati con parsimonia. Poi se ne andò e io mi
ritrovai a pensare a lui distrattamente ma a cadenza regolare. Pensai a lui
durante l’aperitivo quella sera, quando mi passò vicino una ragazzetta mezza
punk con un vistoso piercing sul labbro. Ripensai a Diego quando dovetti
staccare e riattaccare l’analogico del computer di casa. “Voglio mettere l’Adsl
pure qui” gridai ad Elettra, intenta a spinzzenttarsi le sopracciglia. “Ma se
ti colleghi pochissimo”. Ma io non le diedi retta. Stavo già pensando se fosse
il caso di chiamare subito per un appuntamento Diego Perrone per la linea di
casa. Il biglietto da visita ce l’avevo nel portafoglio. Ma se l’avessi
chiamato di sera, mi dissi, forse lo avrei preoccupato. Ma non riuscivo a
smettere di pensare a lui. Continuò così pure il giorno dopo, e la cosa mi
preoccupò. E quando tornò, una settimana dopo per farmi firmare il contratto,
rimasi deluso vedendolo entrare con un tipo grassoccio, sui quaranta, rasato e
con una risata antipatica e inopportuna. Diego restava in silenzio a fare
tappezzeria. Questa volta però indossava una camicia giallina sotto il vestito
scuro. Senza cravatta. Il look da bravo ragazzo cozzava con i capelli punk e i
piercing. Ma era comunque bello. Per liberarmi del suo superiore grassone e
antipatico, proposi a Diego di fumare con me e chiesi a Simona di accompagnare
l’altro, del quale ora ho dimenticato il nome, dunque lo chiamerò grassone; chiesi
alla mia segretaria di mostrare gli altri uffici al grassone. E solo con Diego
sul terrazzino, assorbii subito l’atmosfera erotica. Sembrava adeguata come una
minigonna in chiesa, ma era naturale e genuina come l’erezione nei miei pantaloni,
da sembrarmi entusiasmante. Un bambino di otto anni sull’ottovolante, così mi
sentivo. Diego mi guardava negli occhi questa volta, ma lo intimidivo lo
stesso, anche se mi aveva impalato, mi aveva venduto la sua fottuta Adsl.
“Sei contento?” lo domandai quasi
provocatorio. In verità volevo proprio provocarlo. Diego sputò fuori un po’ di
fumo, poi tossicchiò. “Il mio primo cliente... mi piacerebbe festeggiare”
“Festeggiamo!” mi scappò. Lui mi
guardò intensamente e dopo qualche secondo, ebbi l’impressione che contasse, mi
chiese: “posso invitarti a cena”
Io deglutii. Lo stato di
esaltazione si trasformò in panico, perché mi stavano cadendo addosso tutta una
serie di emozioni che non conoscevo e non sapevo come fronteggiarle. Mi affidai
all’istinto: “Ma una trattoria, non parlarmi di pesce crudo o roba etnica”
“Cucino io” ero così disabituato
al concetto di mangiare a casa che lo guardai di traverso, poi capii.
“I miei coinquilini il
finesettimana tornano a casa, se ti va questo venerdì...?” era e sembrava un
appuntamento con tutti i crismi. Mi ricordai che proprio quel venerdì Elettra
iniziava joga. Era fatta. Ero libero.
Diego mi diede il suo indirizzo e
io iniziai a vivere per quella sera.
Adoro ogni singola riga di questa "fanfiction", dalle descrizioni in prima persona, al concetto della "bolla e dell'ago", al nascere di un'attrazione esaltante come andare sull'ottovolante. Sento che l'attesa di un nuovo capitolo mi ucciderà come in passato è stato per "estate"!!! <333
Come inizio promette davvero bene. Michele fino a quel momento credeva di essere felice, di essere innamorato, ma era solo un'illusione. In realtà viveva quella vita piatta quasi come se fosse di un altro, che non gli appartenesse senza rendersene conto. Diego mi piace tanto in questa fic, così insicuro ma anche seduttivo. Si capisce subito che è proprio la sua insicurezza a conquistarlo.
Questo blog è nato per tutti quelli che amano la coppia Caparezza/Diego Perrone (altresì detta Diegorezza) in odor di slash (slash fanfiction) e per coloro che amano Diego Perrone e il mitico Michele Salvemini come artisti, con un occhio speciale e fantasioso sugli altri musicisti che più o meno ruotano (o hanno ruotato) intorno a questa coppia. Welcome.
ATTENZIONE: tutte le fanfiction presenti nel sito che citano Diego Perrone e Michele Salvemini (Caparezza)e altri personaggi reali, sono da considerare sempre e tassativamente frutto della fantasia e del talento dell'autore. Non c'è niente di reale né è a scopo di lucro. In caso contrario, qualora si racconti un avvenimento "reale" non sarà una fanfction e verrà ben specificato.
Se non vi piace lo slash non leggetelo
Sublimando sul palco................................................................................................................................
-Durante fuori dal tunnel, alla frase: “Mi sento stretto come quando inchiappetto un topolino” (al posto di puffo, per adeguare alla scenetta) mimato un atto omosessuale, nella fattispecie CaparezzaVSDiego.
-Durante Bonobo Power, vengono imitati coiti e Diego, dopo aver tentato Capa al sesso bonobo, si consola prima con il tastierista poi con una banana.
-Durante una nuova versione di Fuori dal tunnel, Caparezza imita un nuovo coito omosex con uno stura lavandini sempre ai danni di Diego.
-Durante il dito medio di galileo, Diego presta il fianco alla famosa frase: “Temono il dito di Galileo tra le chiappe” mettendosi in posa per farsi infilare metaforicamente il dito medio tra le chiappe da Caparezza.
-Durante una delle tante versioni di Abiura di me, Diego dice: “Ti posso cliccare?” e dopo averlo toccato con la freccetta, arriva con un finto dito (tipo sempre mouse del pc) e lo sbatte sui genitali di Capa.
-In un'altra di Abiura, Caparezza impugna il pacman e "mima" di mordere qualcosa che pende dal corpo di Diego, indovina un po' cosa...
-Ancora Abiura di me, Diego fa la principessa del videogioco di Super Mario che amoreggia con Tetris, interpretato da Caparezza.
-Durante Kevin Spacey, Diego Harry Potter, sbatte la bacchetta magica verso il sesso per evocare un sortilegio contro la prostata di Caparezza.
-Durante stango e sbronzo Caparezza prende di petto le dimensioni della scimmietta di Remy (interpretata da Diego) e definisce le dimensioni del suo pene siffrediane.
-Prima di Auditel's family, per parlare del decadimento dei rapporti amorosi, Caparezza imita una telefonata ad una linea erotica e Diego interpreta una centralista hard con tanto di parrucca e movenze.
-Nel live de La fine di gaia, Caparezza spinge nel sedere di Diego la lancia, gesto però non legato ad una scenetta o altro. Così...
-In The auditel family, alla fine Caparezza svende tutto, persino una notte d'amore con Diego. Ma poi si pente e cerca il suo perdono tirandogli un bacio subito ricambiato
Adoro ogni singola riga di questa "fanfiction", dalle descrizioni in prima persona, al concetto della "bolla e dell'ago", al nascere di un'attrazione esaltante come andare sull'ottovolante. Sento che l'attesa di un nuovo capitolo mi ucciderà come in passato è stato per "estate"!!! <333
RispondiEliminaGrazie tesoro.... sei la più dolce delle favole
RispondiEliminaCome inizio promette davvero bene. Michele fino a quel momento credeva di essere felice, di essere innamorato, ma era solo un'illusione. In realtà viveva quella vita piatta quasi come se fosse di un altro, che non gli appartenesse senza rendersene conto. Diego mi piace tanto in questa fic, così insicuro ma anche seduttivo. Si capisce subito che è proprio la sua insicurezza a conquistarlo.
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