martedì 18 giugno 2013

Tra rabbia e passione, ventisettesima puntata



Titolo: Tra rabbia e passione (cronaca di una torbida relazione fra trulli ed onore)
Autori: Annina e Giusipoo
Pairing: Diego Perrone/Michele Salvemini
Genere: AU/Storico/Commedia/Erotico/Romantico/Introspettivo
Storyline: Fine anni settanta
Rating: PG, slash, 

Disclaimer: si intenda tutto frutto della fantasia e del talento delle autrici. In verità i personaggi sono originali, abbiamo preso in prestito i nomi per ispirazione artistica e basta


Capitolo 27



È passato più di un mese ormai dal ricovero di Diego, e i medici non ritengono di dover fare più niente per lui: fisicamente è a posto, mentalmente ha sicuramente dei problemi, ma tenerlo ricoverato non serve, anzi può essere addirittura controproducente, è ora di dimetterlo.
I genitori non sono più tornati a trovarlo, e Michele si sente in diritto di portarsi a casa il suo compagno senza nemmeno consultarli, ma Salvo cerca di farlo ragionare, gli impone di chiamarli e di prendere accordi con loro.
“Ma pà, chi se ne frega, ma li vedi? Non sono nemmeno più venuti a trovarlo, chiamano da Torino per avere informazioni, ma che gente è? Non è solo questione di latitudine, la famiglia deve contare sia al nord che al sud, sono proprio loro che sono una famiglia bacata” Michele nel frattempo infila le poche cose di Diego nello zaino.
Salvo sospira guardando il cielo dalla finestra della stanzetta dell’ospedale: non si sente di contraddire Michele, che gente è quella che abbandona un figlio dopo che è stato quasi ammazzato di botte, e che si trova in precarie condizioni mentali? Ma Salvo è un uomo corretto, non ha nessuna intenzione di abbandonare quel povero ragazzo, ma i genitori devono essere informati: “Michè, sai che voglio portare a casa Diego, e sai che ti aiuterò a curarlo; mi ero già affezionato a lui prima che… prima insomma, e adesso non lo lascerei solo. Ma per favore, li chiami e glielo dici. Solo questo”.
Michele lo guarda sfidandolo con gli occhi, poi capitola: il padre ha ragione. “Vado a chiamare dalla cabina in corridoio. Pà, passagli la felpa, che se la metta intanto, che appena torno ce ne andiamo da qui perdio” ormai la odia quella stanza, quell’aria, quell’odore, quell’atmosfera. Ci fosse stato almeno Diego vero in quella stanza, con i suoi sorrisi dolci, la sua voce. Invece non c’è più la voce di Diego, quella vocina che tanto amava, che tanto lo scuoteva. Al massimo ci sono i suoi sospiri ogni tanto. Che già sembrano un bel passo avanti per essere uno che a mala pena si guarda intorno.
Michele esce e Salvo si avvicina a Diego, seduto sul letto con le mani in mano, lo sguardo fisso alla porta; sa che dovrebbe solo porgergli la felpa, deve abituarsi a fare da solo, ma gli sembra un bambino, non ce la fa, gli infila la felpa dalla testa e Diego come un automa alza le braccia per infilare le maniche, senza spostare gli occhi. Salvo gli fa una carezza sui capelli, che nel frattempo si sono allungati parecchio, e si siede vicino a lui, in attesa del figlio. Rientrando Michele li vede così, vicini, il braccio del padre sulle spalle di Diego, immobili. Sorride mesto al padre, annuendo: “Per loro va bene. Ce lo portiamo a casa pà”.
“Sì figliolo, ce lo portiamo a casa. Vieni Diego, vieni ragazzo mio”
Fa per alzarlo ma proprio in quel momento si sente bussare: dalla porta rimasta aperta fa capolino il Maresciallo Camporeale. Michele lo guarda con gli occhi resi più scuri dalla rabbia: se prima non amava i carabinieri, ma era anche disposto a colloquiare con loro, ora li odia. Secondo lui è colpa loro, solo loro se il suo ragazzo è ridotto a poco più di un vegetale. E non importa se a commettere l’orribile delitto è stato un uomo impazzito, se la divisa non c’entra niente: Michele li accomuna tutti in un odio viscerale. Si sposta davanti a Diego, quasi a volerlo proteggere da altre aggressioni. Quasi come se lo sguardo di Camporeale fosse in grado di ferirlo.
Il maresciallo allarga le braccia vedendo la reazione di Michele, si risente e lo apostrofa: “Salvemini, non permetterti di guardarmi in quel modo. Quel che è successo…”.
“No maresciallo, mi ascolti lei adesso, e non si permetta lei di parlarmi con quel tono. Non è lei adesso che può farmi la predica. È stato uno dei suoi a fare questo. Lo guardi marescià, lo guardi bene. Se lo ricorda così lei Diego? Io no, io mi ricordo un ragazzo serio ma allegro, pieno di vita, intelligente. Aveva un cervello in perenne movimento e le stelle negli occhi, sempre”. Michele e Camporeale si guardano fisso uno di fronte all’altro, sfidandosi. “Mi dica maresciallo, gli trova qualche stella negli occhi ora? Glieli guardi bene: cosa ci vede? Lei niente scommetto. Io ci vedo tante cose, ma dietro stanno. Quello che a lei può sembrare apatia, è paura, è terrore. E non credo che gli faccia bene vedere una divisa come la sua. Non dimentichiamoci che è stato uno vestito come lei a ridurlo così!”. Non urla Michele, parla a voce bassa, per questo ancora più incisiva.
È Camporeale il primo ad abbassare gli occhi, e quando parla lo fa a bassa voce anche lui stavolta: “Non sono venuto qui per discutere di chi sono le colpe”.
“Allora perché è venuto”.
Questi si toglie il capello e si gratta la testa pensoso: “Senti Salvemini, è da un mese che ci penso, non stai parlando con un coglione qualunque, checché ne pensi tu devi capire che anche noi abbiamo perso due colleghi, due amici. Sì Salvemini, io ne ho persi due: per me valevano allo stesso modo Diego e Alfredo”.
“Per me no, per me conta Diego” Michele scatta: “Quell’altro ha fatto bene ad ammazzarsi, perché altrimenti l’avrei cercato io e ammazzato con le mie mani. E non mi guardi così, non può arrestarmi per le intenzioni. Maresciallo, l’hai capito cosa gli ha fatto? L’hai capito? Te l’hanno spiegato bene?” le ultime parole Michele le urla, gli occhi fiammeggianti.
Salvo si avvicina a Michele e gli impone di tacere: “Michè piantala, andiamo, non davanti a Diego, non urlare. Maresciallo, la prego…”.
“Venga fuori un attimo Salvemini, suo padre ha ragione, non davanti a Diego. Solo un attimo”.
E Michele, pallido in viso per la rabbia, stringe i pugni ma lo segue in corridoio. Non gira molta gente per loro fortuna. Sono praticamente soli. Dopo aver finto di osservare con interesse un poster dove vengono spiegati i pericoli dell’uso di eroina, Michele sbotta: “Cosa vuoi? Cosa vuoi da noi? Non ti basta come siamo conciati?”.
Camporeale guarda dalla finestra le nubi che si muovono velocemente, in balia del vento: si sente anche lui così, in balia di qualcosa di troppo grande, di troppo grave: “Michele ascoltami bene, ti parlo da padre ora, non da maresciallo, non da carabiniere. No, ascoltami ti dico, non parlare. Non ti dico che posso capire il tuo rapporto con Diego, sono troppo vecchio e ho ricevuto un’educazione che non mi consente di accettarlo” si interrompe per guardare ancora le nuvole e scrolla la testa.
“Credimi quando ti dico che consideravo, che considero Diego quasi un figlio, perché è arrivato qui da noi giovane, timido e come dicevi tu, serio; l’avevamo preso tutti un po’ sotto l’ala. E poi tra noi c’è sempre questo spirito corporativo: quel che fai a un carabiniere, lo fai a tutti gli altri. Sto soffrendo per Diego, e spero che tu riesca a guarirlo: era così felice quando parlava della sua ‘fidanzata’” gli scappa un ghigno ora, come se si potesse tornare a ridere di quella bugia, di quella mistificazione così ridicola alla fin fine. E non sarebbe affatto male, per entrambi. Tornato serio continua: “Hai ragione Salvemini, aveva le stelle negli occhi. Se qualcuno può guarirlo sei solo tu”.
Michele lo ha ascoltato fino alla fine senza battere ciglio, poi si volta e fa per tornare in camera. Sulla soglia ci ripensa e si gira verso Camporeale: “Va bene maresciallo, mi sforzo di crederle; capisco il suo punto di vista, non sono tonto come pensa lei. E credo che davvero lei e gli altri gli vogliate bene. Proverò a ragionarci su ancora. Ora mi lasci andare, voglio portarlo via da qui al più presto”.
“Michele…” Camporeale lo chiama per la prima volta per nome e si stupisce lui per primo. “Michele lascia perdere l’odio, anche quello per Alfredo. Era un povero pazzo e nessuno se n’era accorto. Ma che tu ci creda o no, in un suo modo malato voleva bene a Diego. No, lo so Michele, è incomprensibile, eppure è così. Non pensarci più, sarà meglio per te e per Diego. In bocca al lupo” Poi fa per prendere qualcosa dalla tasca: “Che testa! L’età avanza! Ero venuto per questo. Ho dei documenti da consegnare a Diego. Se riuscite a farglieli firmare, passo nei prossimi giorni a casa vostra, così intanto vedo come sta. Te lo chiedo per favore”.
Michele scrolla la testa, prende gli incartamenti senza una parola. Si volta verso il maresciallo e annuisce: “Va bene, venga”.
Camporeale gli tende la mano: “Grazie Michele”. Michele tentenna, poi gliela stringe, quindi entra in camera mentre il maresciallo a spalle curve si allontana nel corridoio.
Una volta tornato nella sua stanza trova Diego vicino alla finestra in piedi. Anche se è più magro di come fosse un mese prima, quando ancora stava bene, e ha i capelli più folti, sembra sempre lo stesso. Michele gli poggia una mano sulla spalla. Lo sente sussultare un po’. Vorrebbe abbracciarlo, baciargli la nuca, sentirlo addosso a sé. Ma ci ha provato altre volte e sa che non fa alcune differenza. Un ciocco di legno sembrerebbe più affettuoso. “Andiamo piccolo, a casa adesso” Michele lo prende per mano e Diego lo segue docile, indifferente. Salvo afferra lo zaino e s’incamminano verso il parcheggio.
A bordo della Renault Michele guarda il compagno seduco accanto a lui che fissa il vuoto oltre il finestrino e si chiede se riuscirà mai ad arrivare in profondità, laggiù dove è sicuro si nasconde il suo Diego. Riavrà mai indietro il suo compagno di vita, di giochi, d’amore? Una volta a casa non sembra tutto facile. Diego appare confuso, molto confuso! È Salvo a spiegargli come deve muoversi, dove stanno le cose e soprattutto dove si trovano. È come se Diego nella vita avesse conosciuto solo quella stanza d’ospedale. Diego sembra sforzarsi di voler capire. Michele lo guarda mentre pensa: ma come amore, questo è il tavolo dove hai mangiato più di una volta con me, con Salvo e sulle sedie abbiamo fatto l’amore, come hai potuto dimenticarlo? E la vasca dove abbiamo fatto il bagno? La stanza da letto... quello non puoi averlo dimenticato. Michele lo prende sotto braccio e lo trascina nella sua stanza. Diego lo segue ma il passo è difficile, come se quasi non volesse, quasi s’impuntasse con i piedi. Diego non sembra felice di essere là, davanti al letto. Ora negli occhi c’è una luce diversa, forse terrore. Michele gli prende il viso tra le mani: “Non vuoi Diego, non vuoi venire in questa stanza? Era la nostra stanza. Ci abbiamo dormito insieme l’ultima volta che sei stato in questa casa. È quello che ti spaventa. Io ti spavento?” gli accarezza le guancie, i capelli. Diego non dice niente però fa un passo indietro. “Non vuoi che ti stia vicino?” Michele capisce. Diego ha paura del contatto fisico. Diego ha paura del sesso forse. I ricordi belli nella sua testa devono essersi confusi con quelli dello stupro. I medici dicono che è stato il trauma a ridurlo così. E che non devo forzarlo. Ma come si fa ad uscire da questa specie di apatia, come? Michele sa di essere destinato a domandarselo ogni giorno da qui in avanti. “Va bene amore, andiamo in cucina. Salvo preparerà la pasta, sai? Basta cucina dell’ospedale, oggi ti meriti una bella cena pugliese! Vieni piccolo” lo prende di nuovo per mano e Diego, quasi come segno di gratitudine a modo suo gliela stringe. È una stretta appena percettibile ma Michele lo capisce eccome e un alito di gioia lo invade. Mi ama ancora, non c’è dubbio. Vuole stare con me. Si dice e una lacrima solca la sua guancia. È commosso ma sa che non deve piangere ora. Non deve piegarsi. È iniziata una lotta dura, impari con altre. Ma forse il peggio è passato. Se lo dice sempre che il peggio è passato. Ogni volta che vede Diego che anche così assente, è comunque vivo. Lo pensa mentre arrotola la forchetta attorno agli spaghetti, pensa che se Alfredo avesse preso la mira giusta, lo avesse colpito in testa o al cuore, ora avrebbe solo una lapide su cui portare fiori. Una tomba lontana da lì, a Torino. Non avrebbe più nulla. Per questo deve essere forte. “Michele, sempre a riflettere. Aiuta Diego ad arrotolare gli spaghetti con la forchetta che non si ricorda!” Michele scatta in piedi e si mette dietro a lui: “Così amore, fai così” gli sposta la mano e Diego esegue macchinalmente. E poi mangia. Dopo la terza forchettata senza aiuto, Michele torna a sedere e gli sorride. “Sono buoni gli spaghetti  di Salvo eh, vero Diego?” lui non risponde ma Michele riesce a vederci un sorriso nel suo sguardo, un piccolissimo sorriso che Michele racchiude nell’armadio dei passi avanti.
Di lì a poche settimane dentro l’armadio dei passi avanti come lo ha denominato Michele, si inizia a stare stretti. Ora Diego sorride spesso, annuisce, e, verso Ottobre, inizia ad articolare qualche parola, lasciando felicemente basito Michele, che per non perdersi tutti i progressi del suo sfortunato amore, accetta la cassa integrazione al posto di Pulcinella, che ha iniziato a lavorare alla Eganap da meno tempo di lui e che faceva parte dei rami da tagliare. “Io non so come ringraziati Ortica” e lo abbraccia quel giorno, davanti al sindacato.
“Non mi devi ringraziare Carmine. Non lo faccio per te e la tua famiglia, anche se meriti il posto di lavoro più di me. Io lo faccio per Diego, così potrò essergli accanto ventiquattrore su ventiquattro” gli occhi brillano di felicità mentre racconta gli ultimi passi avanti per uscire fuori dal tunnel dell’amico. Tanto che a un certo punto gli amici lo prendono in giro, lo scherzano. “Se gli stai sempre appiccicato lo stancherai e si troverà un altro. Attento alle corna Michè!” tutti ridacchiano e anche lui si fa una bella risata per quell’ipotesi così assurda: Diego vive e mangia e respira solo per Michele. Anche con Salvo, certo, ma è con Michele che dorme, si fa il bagno, pur se Michele non lo può toccare, va in giro per Bisceglie, passeggiano a braccetto sulla spiaggia guardando spesso tramontare il sole. Certo, all’inizio non è stato facile nulla, tipo la notte, dormire insieme... Diego era rigido su quel letto. E al minimo contatto con il compagno saltava come se lo attraversasse una scossa elettrica. Michele si teneva lontano da lui, non lo sfiorava nemmeno, continuando però a parlargli incessantemente; gli cantava anche le canzoni che sapeva che gli piacevano, perfino Battisti che aveva imparato ad amare grazie a lui. Diego sembrava contento, stava attento. Quanto finalmente si addormentava, Michele gli tornava vicino, e lo accarezzava piano, per non svegliarlo, per non  spaventarlo. La cosa che lo faceva stare più male era proprio questa: non poterlo tenere tra le braccia, coccolarlo. A far l’amore non ci pensa proprio, ma gli manca tenerlo stretto, gli manca sentire le sua braccia magre attorno, o quando gli ficcava il naso nel collo perché, diceva, voleva sentire il suo profumo; gli mancano i momenti passati a parlare, quelli in cui demolivano il mondo e poi lo ricostruivano.
La psicologa che ha in cura Diego è ottimista, i suoi progressi sono costanti e nell’ultimo periodo ha fatto notevoli passi avanti. Pian piano ricomincia a parlare. All’inizio solo qualche parola, poi intere frasi. Certo è ancora meccanico. Ma parla. Per Michele è una fonte di gioia infinita risentire la sua voce! È come se fosse uscito dal coma. Non sta del tutto bene ma i miglioramenti sembrano aver preso un’ascesa inevitabile. È passato anche novembre, ora Diego parla correntemente, e questo è già un sollievo. Ma la psicoterapeuta gli dice che è giunto il momento di affrontare il trauma. “Non è più tempo di proteggere Diego, ma è ora di porlo di fronte a quanto è successo” fa sapere la Dottoressa Castelli un mercoledì mattina, Policlinico di Bari, padiglione quattro. Diego è rimasto in corridoio, in attesa che Michele esca dallo studio. Ogni tanto i ruoli s’invertono e del il paziente a dover attendere. “Io... io non so se ce la faccio” fa asciugandosi il sudore delle mani nei jeans. Michele è spaventato perché la psicologa glielo ha spiegato per bene: dovrà essere lui ad affrontare il mostro insieme al suo compagno, dovrà essere lui il tramite tra Diego e la violenza subita. Dell’episodio che lo aveva ridotto un vegetale per oltre un mese Diego non ricorda assolutamente nulla, il suo cervello l’ha rimosso, l’ha nascosto accuratamente. Per non soffrire.
“Eppure deve tornare a ricordare, deve tirarlo fuori se vogliamo che guarisca completamente, e questo è il momento” la Castelli gli parla gentilmente guardandolo negli occhi mentre giocherella con l’elastico della cartelletta di Diego.
“Ma ne è sicura? Cioè, non è che invece me lo riporta indietro, che mi si chiude di nuovo come prima? Perché io non potrei farcela, non potrei sopportarlo un’altra volta” si massaggia la fronte. “Io già adesso penso che dovrei mettermi in terapia anch’io, a volte mi sembra di impazzire. Vederlo ridotto come negli ultimi mesi, non può capire. Ora possiamo di nuovo parlare, ma sa che non ho più potuto abbracciarlo, non un solo bacio, quegli occhi che sembravano pozzi bui”.
La dottoressa sorride: “No Michele, devi essere forte e farlo, per te e per lui. Sei stato bravissimo finora, non hai bisogno di terapia, ma se avrai bisogno di aiuto io sono qui. Comincia a portarlo nei posti che avete frequentato insieme, non so: ristoranti, città, se avete un piatto speciale, insomma portalo a rifare la strada che avete fatto insieme nei mesi prima del trauma. Fino a che arriverai alla spiaggia dove è accaduto”.
Michele vorrebbe scomparire, il solo pensiero di riportare su quella spiaggia il suo Diego gli fa drizzare i capelli sulla nuca. Quel posto è colmo di ricordi orribili per tutti e due. Non sa se ce la farà.
La psicologa lo fissa con sguardo dolce ma fermo: “Ce la farai Michele, ce la devi fare. Perché Diego se lo merita, e anche tu. Vi meritate la vita insieme che avevate progettato. Non potete lasciarvela rubare. Vai ora che Diego ti aspetta. Per qualunque cosa chiamami, a qualsiasi ora, va bene?”.
Michele si alza e le porge una mano gelata. Nemmeno quelle di Diego nei loro primi incontri erano così fredde, pensa. Esce e in sala d’aspetto vede il suo compagno seduto in paziente attesa. “Diè, andiamo?”. Diego lo guarda e gli fa un sorriso. Non è ancora il bel sorriso che lo ha fatto innamorare, ma pur sempre un sorriso. Lo prende per mano ed escono nella via. Non si sono più abbracciati da allora, Diego trema se lo abbraccia. Gli manca, però, quanto gli manca.
Parcheggiano la macchina a un centinaio di metri da casa. Non l’hanno quasi più usata. Michele preferisce passeggiare, si è accorto che in macchina Diego tende a chiudersi di più. Mentre camminano Michele pensa a organizzarsi. “Diè se andassimo a Pescara domani? Ci facciamo un giro in giornata, mangiamo, passeggiamo un po’. Che mi dici?”.
Diego sulle prime non risponde, e già Michele ha un tuffo al cuore, non si gira nemmeno a guardarlo: no ti prego, stiamo qui, stiamo a casa, ci rifugiamo nella nostra casa, non voglio altro ma non te ne andare ancora amore mio…

Poi sente la mano di Diego stringere la sua, la sua vocetta ancora un po’ incerta dire che sì, è felice di andare: “Però torniamo a casa nostra a dormire? Non mi va di stare via, non ancora”. Il cuore di Michele riprende a battere normalmente. “Certo, come vuoi, partiamo domattina presto, la sera torniamo a casa tranquilli, così papà può prepararci la cena”. Sarebbe disposto a guidare anche ventiquattro ore di fila se servisse.

1 commento:

  1. Piano piano il loro universo sta tornando nella posizione giusta. Michele sente che il suo Diego è vicino, che sta tentando di venire fuori. Forse solo un altro shock potrà far ritornare Diego, il vero Diego. Ma cosa accadrà quando Diego ricorderà la violenza?

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